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Che nella mente (non) rimangano solo muri

12 Gennaio 2023 Commenti chiusi

Acciocché l’occhio incontri solo muri”. “Che l’occhio incontri solo muri”. “Che nella mente rimangano solo muri”.

Sono tre passaggi tratti dal bellissimo fumetto di Zerocalcare, “La voragine”, pubblicato per il giornale “L’Essenziale”, in cui viene ripetuto, come un mantra, in cosa consiste l’essenza, la funzione recondita, del regime detentivo del 41 bis.

Tre volte, si diceva. Ogni passaggio scandisce una particolare caratteristica del regime detentivo di cui sopra. Il blindo della cella sempre abbassato, con lo spioncino che dà sul muro del corridoio davanti ad essa, in modo tale che non si riescano mai a vedere le altre celle. L’ora d’aria giornaliera (l’unica) da trascorrere in un minuscolo cortile, fra muri altissimi e con una rete metallica ad impedire di scorgere il cielo. Ed infine le molte prescrizioni da rispettare all’interno della cella, dal divieto di ricevere libri e riviste dall’esterno, alla censura della posta, all’asetticità totale dello spazio, fino al divieto di appendere fotografie alle pareti (se non una, a volte, quando autorizzata). “Che nella mente rimangano solo muri”, appunto.

La fase finale di un processo di annientamento il quale risulta essere la finalità vera della misura restrittiva in questione.

In questi giorni il 41 bis viene tirato in ballo molto più frequentemente del solito. La motivazione è una sola. Il 4 maggio 2022 Alfredo Cospito, anarchico già condannato a 10 anni di reclusione per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo nucleare, condanna interamente scontata, sotto processo per “strage contro la sicurezza dello stato” a causa di un ordigno rudimentale esploso nel 2006 davanti alla scuola dei carabinieri di Fossano, ordigno che gli stessi inquirenti hanno definito “a basso potenziale”, che ha fatto esclusivamente danni materiali non particolarmente rilevanti (la pena prevista dal 285 c.p. è l’ergastolo), viene mandato alla sezione del cosiddetto “carcere duro” del penitenziario di Bancali, a Sassari, per decisione dell’allora ministra della giustizia Marta Cartabia. È il primo anarchico ad essere recluso in un regime carcerario del genere.

Il 20 ottobre scorso Alfredo ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza contro le misure a cui è sottoposto, condotta che perdura ancora adesso e che è deciso a portare fino in fondo. Sono ormai quasi tre mesi, con tutte le conseguenze, tremende, per il suo fisico. La sua determinazione, assieme all’opera indefessa del suo legale Flavio Rossi Albertini, alle azioni di compagni e compagne, anarchiche ma non solo, dell’inizialmente ristretto gruppo di attivisti anticarcerari e al documento diffuso dal pugno di avvocati che denunciavano il clima di caccia alle streghe contro il movimento anarchico, tutto ciò è riuscito a “sollevare il velo di Maya”, a bucare la coltre di indifferenza che da sempre ricopre la condizione carceraria.

Ora il “caso Cospito” è sui giornali, anche nazionali e se ne parla su siti, in radio e in Tv. Un appello sottofirmato da 38 personalità di varia estrazione, che ha raccolto migliaia di adesioni, chiede al ministro della giustizia e al dipartimento penitenziario di tornare sui propri passi e fare di tutto perchè il provvedimento restrittivo venga revocato, nonostante l’ultima parola ora spetti alla Cassazione, visto che il tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto il ricorso contro la misura, e dunque il sistema repressivo abbia confermato la necessità di una punizione la più severa possibile nei suoi confronti. Le molte azioni di compagne e compagni, come occupazioni temporanee di spazi pubblici, presidi, manifestazioni, dirette radio dal carcere di Bancali, hanno rilanciato la questione di Alfredo. Tutto ciò ha avuto il merito di imporre al dibattito pubblico la messa in discussione della misura del 41 bis in sé e l’annientamento che comporta in chi vi è assoggettato.

A nostro avviso è necessario allargare un po’ gli orizzonti per considerare la situazione in cui siamo con le varie sfaccettature. Alfredo e Anna non sono gli unici due anarchici condannati duramente per alcune azioni dalle conseguenze tutto sommato contenute. C’è il caso di Juan, anche lui anarchico, condannato a 28 anni in primo grado, accusato di aver piazzato una “pentola esplosiva” davanti alla sede della lega di Villorba, ordigno che, una volta deflagrato, nelle ore notturne, ha fatto solo danni materiali. Attentato per finalità terroristiche, recita l’accusa, l’articolo 280 c.p, reato che prevede, al primo comma, una pena che può arrivare fino ai 30 anni di reclusione.

Il clima di recrudescenza della repressione penale riguarda ormai molti ambiti dell’azione politica. È solo il caso di citare l’instancabile opera della procura torinese, tra un’associazione sovversiva a carico dei militanti dell’Asilo occupato, l’associazione a delinquere contestata al centro sociale Askatasuna, le centinaia di persone messe sotto processo in Valsusa, le misure cautelari emesse nei confronti di attivisti che protestavano contro l’alternanza scuola – lavoro e contro la morte di un loro coetaneo. Si evidenzia inoltre la richiesta della questura di Pavia di sottoporre il militante di Ultima Generazione Simone Ficicchia a sorveglianza speciale a motivo delle azioni volte a far emergere la questione climatica e ambientale.

Come si è arrivati a questo punto? È utile considerare il ciclo repressivo che ormai da diversi anni coinvolge la penisola in un crescendo inesorabile, fra frenate e risalite. Fra gli altri noi del collettivo Prison break project abbiamo ravvisato, nel nostro tentativo di analisi, l’instaurarsi di una forma di diritto penale del nemico contro gli avversari politici e sociali, almeno a partire da Genova 2001, così da riuscire a leggere in modo unitario l’innalzamento generale dell’entità delle pene inflitte. La sconfitta del movimento no global e la scia di punizione poliziesca e di decenni di galera addossati ai 10 “capri espiatori” del blocco nero (Vincenzo Vecchi è in attesa dell’estradizione dalla Francia) ha avuto come ripercussione la legittimazione all’utilizzo reiterato di strumenti repressivi che molti pensavano relegati agli anni bui del regime e agli anni 70, nonché l’emanazione di nuovi.

L’estrema plasticità e duttilità dei dispositivi punitivi a disposizione ha reso possibile l’adattamento dell’armamentario inizialmente destinato al contrasto di un determinato fenomeno “criminale” ad un contesto completamente differente. È successo con le “misure di prevenzione” come il foglio di via e la sorveglianza speciale, concepite per contenere, anzi per prevenire, soggetti criminali e poi trasferite decisamente nell’ambito della repressione del dissenso politico; è successo con il reato di devastazione e saccheggio, utilizzato senza soluzione di continuità, a partire dagli anni 2000, contro i manifestanti, poi contro gli ultras, poi di nuovo contro i manifestanti ed infine contro i carcerati in rivolta; è successo con i daspo, provvedimenti ideati ad hoc per colpire gli appartenenti alle tifoserie più “riottose” e trasmigrati in contesto sociale e cittadino; con i reati associativi politici, che fino agli anni settanta e ottanta venivano usati contro formazioni politiche ben strutturate organizzativamente e al giorno d’oggi invece sempre più volti a contrastare gruppi anarchici o libertari che si contraddistinguono per la leggerezza o addirittura la mancanza totale di una struttura “classica”, finendo così per reprimere direttamente l’adesione ad un’idea politica; si sta cercando di impiegare lo schema dell’associazione a delinquere “semplice” per punire sempre più centri sociali, sindacati di base, occupanti di case e così via.

La traiettoria politica che ha portato Alfredo Cospito al 41 bis non è così diversa. La particolare agibilità di una misura carceraria così gravosa, guadagnata in trent’anni di applicazione ed espansione costante (si è passati dalle iniziali 200 e rotti alle attuali 750 persone che vi sono ristrette) ne ha legittimato l’estensione ad altre soggettività: dalla repressione della criminalità organizzata alle nuove Br, ai fenomeni “terroristici” (con tutta la problematica relativa alla definizione stessa del “terrorismo”) al primo militante anarchico.

Genova 2001 ha avuto ricadute su una serie di procedimenti che nulla avevano a che fare con il movimento no global e le sue diverse componenti. Anche la portata politica della vicenda di Alfredo va oltre il caso specifico. La concreta minaccia di una condanna definitiva all’ergastolo ostativo e ad alla pena di morte viva del 41 bis nei suoi confronti rappresenta il culmine raggiunto dal ciclo repressivo del dissenso politico attuale. La generosità ed il coraggio di aver messo il proprio corpo e la propria vita a repentaglio in questa lotta ha avuto la conseguenza di evidenziare le contraddizioni e le smagliature del sistema repressivo ma anche di dare ossigeno e spazio al dibattito antirepressivo e anticarcerario.

Vogliamo che Alfredo Cospito viva e venga al più presto trasferito dal regime di tortura del 41 bis.

Vogliamo che venga scongiurata la possibilità di una condanna all’ergastolo per lui e per Anna Beniamino.

Vogliamo che il 41 bis venga abolito perché totalmente incompatibile con la vita umana.

Vogliamo che l’ergastolo ostativo scompaia dall’ordinamento.

Vogliamo che si avvii un processo che porti alla sconfitta della concezione giustizialista imperante, che vede nel carcere la stella polare.

Vogliamo che la repressione smetta di essere l’orizzonte unico di ogni soggetto sociale e politico che si attiva.

 

Che nella mente crollino i muri che ci rinchiudono.

 

Prison Break Project

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Devastazione e saccheggio: un reato politico da abolire, accusate/i da sostenere

17 Marzo 2021 Commenti chiusi

Quando le istituzioni che hanno costruito la propria legittimità alimentando quotidianamente l’immagine della sacralità dell’ordine pubblico sentono minacciata tale intangibilità, reagiscono con l’arma che più rapidamente può avere degli effetti. La paura. Paura del bastone per alcuni e, per chi applaude il bastone, paura del caos.

Per questo, quando alla vigilia di un ennesimo lockdown, la rabbia ha preso voce, spazio e corpo da nord a sud (Torino, Firenze, Palermo…), la questione più urgente era fermare la contaminazione tra le proteste inerenti le chiusure e quelle contro la mancanza di reddito e la riduzione delle libertà.

PM e giornali si sono attivati da un lato emanando decine di denunce e dall’altro agitando ai quattro venti gli spettri di “infiltrazioni antagoniste” o “irruzioni anarchiche” per demonizzare gli indagati. La procura di Torino ha deciso invece di ricorrere a uno strumento che può essere indicato come una “macchina da guerra” giudiziaria. Il reato di “devastazione e saccheggio” è stato contestato agli autori di alcuni danneggiamenti e furti a diversi negozi del centro della città avvenuti nel corso della manifestazione anti-lockdown. Si tratta di un temibile strumento del potere giudiziario per terrorizzare chi in diverse maniere “crea disordine” e discreditare ogni forma di rivendicazione. Prosegui la lettura…

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Ciao Salvo

10 Aprile 2020 Commenti chiusi

foto di Baruda

9 aprile 2020

 

Oggi se ne è andato Salvatore Ricciardi.
Mai come in questi giorni scanditi dalle curve di mortalità e dalle statistiche sui contagi, si rischia che il senso delle storie insieme singolari e relazionali di ognun* si perda nella banalità e nell’inflazione del numero.

Salvatore non è morto di Covid-19, ma i protocolli sanitari legati all’emergenza hanno imposto che i suoi ultimi giorni d’ospedale trascorressero in completa solitudine. Siamo sicuri che altrimenti in molti avrebbero attraversato la stanza di quell’ospedale per un ultimo saluto e crediamo che anche Salvatore avrebbe desiderato congedarsi così, salutando compagn* e amic* vecch* e nuov*.
La sua storia personale è stata segnata dalla lotta, dall’avventura collettiva e di classe, che dagli anni 60 ad oggi lo hanno visto sempre convintamente schierato dalla parte degli oppressi.
Salvo, che la galera se la portava dietro senza averlo cambiato, ha fino all’ultimo lottato contro quelle dannate sbarre con il pensiero sempre rivolto a chi vi è ancora rinchiuso. La sua voce, la sua esperienza e la sua memoria sono un patrimonio collettivo che lui non ha mai smesso di far circolare, di mettere in comune, per poter continuare a lottare.

Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.
Sulla prosa di Beckett ci davi consigli concreti da chi ha attraversato le lotte di ieri e immaginato quelle dell’oggi e di domani.
Fino alla fine: l’incidente che lo ha portato in ospedale è avvenuto durante un attacchinaggio.
E lo stesso giorno, il 7 marzo, il suo blog – un taccuino per gli appunti arguti aperto al mondo – pubblicava un appello per la liberazione dei detenuti e la loro sottrazione a quel destino di pandemia
concentrazionaria che lo stato sembra deciso a garantire per loro.

Abbiamo avuto la fortuna di conoscere Salvatore solo pochi anni fa, quando gli abbiamo chiesto di darci un parere su Costruire Evasioni, un libro sulla repressione dei movimenti sociali che stavamo ultimando.
In quell’occasione ci ha sbalordito la sua attenzione e la sua generosità. Nemmeno ci conosceva, ma dopo appena un paio di giorni da quando gli avevamo inviato il manoscritto ce lo ha restituito pieno di osservazioni acute e delle critiche sacrosante e meditate di chi si occupa del tema da una vita (e non solo per averne scritto in libri e blog, ma per averne affrontato il peso sulla propria pelle).
Il tutto per di più era accompagnato da una delicatezza ed un’umiltà che francamente è sempre più difficile ritrovare nel mondo superficiale e narcisistico che contribuiamo a costruire, anche fra
compagn*.

Non c’era nessun piedistallo nelle sue parole, nessuna lezione da imparare o teoria da rispettare. Curiosità, tanta, e ancor di più determinazione a lottare senza cedere alla fatica e allo sconforto.
Bastavano due sedie e il fumo della pipa avvolgeva discussioni che si ricamavano per ore attraversando decenni, oceani e immaginando strategie concrete per una pratica militante.
Gli siamo molto grati per averci dato questo esempio di naturalezza nella generosità, per averci regalato la sua preziosa visione scrivendo la prefazione al nostro libro e per averci accompagnato in
tre vivaci giornate di presentazione nella sua città.

Siamo stati fortunati a seguire quel berretto e quel sorriso sempre fresco e un po’ sfottente per le vie di Roma. Perché con i suoi racconti li abbiamo visti i proletari di Centocelle camminare per via dei castani e l’abbiamo sentita la rabbia dei discorsi ripetuti mille volte tra le volte del circolo del Tufello ai piedi delle case popolari. Abbiamo visto la generosità di un uomo, appena conosciuto,
che ci ha aperto le porte di casa per registrare l’intervista che sarebbe andata in onda durante il suo programma su Radio Onda Rossa; abbiamo apprezzato la capacità di intercettare e mettere in
relazione i rivoli delle diverse realtà politiche attente al discorso antirepressivo e anticapitalista, nell’instancabile necessità di analizzare ed agire nel presente.

 

È triste pensare che Salvo sia stato costretto a morire in solitudine, destino comune a molte altre persone in questo periodo.
Eppure, ci piacerebbe pensare che non è andata veramente così. In questi giorni in cui cercavamo notizie delle sue condizioni, piccole coincidenze e “telepatie” ci dicevano che non erano recisi i fili
tra tutti noi e lui.
Come è successo ieri, quando con la compagna romana che ci teneva informati via messaggio, ci
siamo stupiti a volerci telefonare nello stesso momento. O come è accaduto qualche giorno fa
quando uno di noi si è svegliato sudato dopo avere sognato Salvatore.

Ha detto Mauro Rostagno: Essere “compagni nel sogno” è quando cominci a vedere il mondo non solo nella dimensione banale che chiamiamo reale, ma anche nel suo rovescio meno banale e più
“reale”… non è solo un fenomeno politico. E’ la vibrazione che senti nell’aria, nel tuo corpo quando umiliano nel corpo o nei desideri qualcuno che può essere in Russia o in Spagna o all’Asinara.
Essere “compagni nel sogno” è intuire, sentire, amplificare, non rimanere chiusi.

Forse allora non è vero che Salvo è morto da solo e un po’ di lui resterà nei nostri sogni, nella nostra memoria e nelle nostre lotte. Forse, anzi sicuramente, il suo sguardo profondo, capace di carpire le connessioni tra il mondo dei reclusi e la realtà politica quotidiana ci ha visto giusto, ancora una volta: occorre essere consapevoli dell’importanza di “rimettersi le scarpe”, espressione che, come Salvo ci ha raccontato, nel gergo carcerario significa abbandonare la comodità delle pantofole per essere reattivi a quello che succede, capaci di non subire e contrattaccare. Esigenza più che mai attuale in questa fase in cui siamo tutti stati assoggettati a una sorta di condizione semicarceraria sul divano di casa.

Grazie di tutto Salvo
“Chi ha compagni non muore mai”

 

Prison Break Project

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Cremona 2015 non è ancora finita

20 Novembre 2019 Commenti chiusi

Inoltriamo il comunicato di Matteo, compagno condannato alla pena di 3 anni e 8 mesi per devastazione e saccheggio per la manifestazione antifascista del 24 gennaio 2015, a Cremona. Il 10 dicembre il tribunale di sorveglianza di Brescia deciderà sulle modalità di esecuzione della pena, ormai divenuta definitiva. Il comunicato è un invito ad unire le forze per una mobilitazione contro la repressione e contro l’articolo 419 del codice penale. Invito che noi rilanciamo pienamente.

Ciao a tutte e tutti,

sono Matteo, uno degli arrestati per la grande giornata antifascista del 24 gennaio 2015 a Cremona. Il 10 dicembre nel Palazzaccio di Giustizia di Brescia, ancora una volta, si terrà una triste e grigia udienza, presieduta da altrettanti tristi e grigi togati, che determinerà il mio prossimo futuro: come scontare, cioè, la pena divenuta oramai definitiva ad anni 3 e mesi 8 per il reato numero 419 del codice penale – alias l’ignobile devastazione e saccheggio.

 

A più di quattro anni da quel 24 gennaio, Cremona 2015 ancora non è finita.

 

In tantissimx di sicuro ricorderete i giorni di rancore, frustrazione e dispiacere che precedettero quella dirompente manifestazione e le notizie che giungevano dalla città dei violini, nella quale un compagno era stato massacrato durante un vile agguato fascista.

 

Quella volta il limite si era ampiamente superato, Emilio lottava fra la vita e la morte.

Ricorderete come in quella giornata, in migliaia, generosamente e coraggiosamente, decisero in prima persona e con i propri corpi di riempire le strade della città e di rispondere con determinazione alla vile aggressione operata da Casapound.

Arrivammo a Cremona per ribadire con fermezza che episodi di quel tipo non fossero più tollerabili e che fosse necessario, e sempre più urgente, opporsi con tenacia alla presenza di sedi fasciste, a Cremona ed altrove.

 

E quel meraviglioso sabato lo dimostrò ampiamente.

 

Il freddo pungente, l’odore acre dei lacrimogeni, l’assetto da guerra che ci accolse, non fermarono un corteo numeroso e determinato, che cercò in tutti i modi di raggiungere la sede cittadina dei seminatori di odio.

Attraversammo le strade della città, carichi di ira e di apprensione nel sapere un compagno quasi in fin di vita per mano dei camerati del terzo millennio e di quelle istituzioni che ancora una volta si erano distinte per la loro ambiguità e il loro atteggiamento da Giano Bifronte; da un lato, con la solita disgustosa retorica politichese, condannavano fermamente l’inaccettabile episodio di violenza, dall’altro, nel tempo e in passato, molto, troppo, avevano fatto per contribuire allo sdoganamento e alla legittimazione nei territori di Casapound e di altri rigurgiti nostalgici.

Era davvero troppo tardi per rimanere calmi.

Il fiume in piena quel pomeriggio dilagò rompendo qualsiasi tipo di argine.

 

La volontà giudiziaria riguardo i fatti di Cremona, fu quella di fare in fretta, di concludere quanto prima. Il ricorso ad una tipologia di reato come quella dell’art.419 – che evoca scenari apocalittici di manzoniana memoria, propri di una guerra civile –  e le conseguenti condanne, evidenziarono una totale complicità dello stato nell’avallare istanze neofasciste e xenofobe.

Ciò si rese ancor più evidente nel corso delle molteplici udienze, nei vari gradi di giudizio, incentrate sul tentativo di equiparare un’aggressione di matrice politica ben precisa ad una rissa e ad uno scontro tra bande. In tali sedi, inoltre, si è sostenuto, più e più volte, che fascismo ed antifascismo sono categorie storiche ampiamente superate, alla faccia di chi, proprio da chi si definisce fascista, era stato ridotto in fin di vita.

Come spesso accade in questi casi, si “colpì nel mucchio”, riesumando quel “reato dormiente” – almeno sino alla fine degli anni ’90 – di Devastazione e saccheggio, ereditato dal fascistissimo Codice Rocco del 1930 e mai riformato, già utilizzato per i fatti di Genova 2001, Milano 2006, Roma 2011, (successivamente anche a Milano in occasione di Expo 2015).

 

L’articolo 419 c.p. prevede pene detentive che vanno dagli 8 ai 15 anni e mira a colpire individui e movimenti nella loro fase aggregativa, in contesti di mobilitazione di piazza. Si tratta di un capo d’accusa utilizzato, ancora una volta, come efficace strumento di contrasto della conflittualità sociale poiché mira a dispensare condanne pesantissime e a‘devastare’ movimenti o grandi giornate di opposizione diretta.

 

Nella fattispecie cremonese, la tesi accusatoria affondò i suoi presupposti non concentrandosi sui “gravi comportamenti delittuosi e i molteplici danni” che scaturirono dalla rivolta antifascista, bensì affermando e sottolineando il fatto che la quiete, la pace e la ‘stasi sociale’ era stata turbata e messa in pericolo, individuando essa stessa, quindi, come condizione “normale” ed imprescindibile della società, da preservare con il massimo impegno e rigore.

La volontà, dunque espressa quel sabato, di ribadire con determinazione e fermezza che agguati nostalgici avallati da ambigui comportamenti istituzionali non erano più accettabili e tollerabili, si scontrò con l’inammissibile interruzione della “normalità”, della “pace sociale” e del “decoro urbano” della piccola provincia lombarda.

 

Senza dilungarmi troppo su come la terminologia che costituisce questo tipo di reato da un punto di vista semantico sia stata totalmente avulsa, storpiata e distorta dal potere costituito e dall’apparato giudiziario (cosa si intende per devastazione? cosa si intende per saccheggio? la precarietà di futuro e di vita a cui ci costringono può essere definita normale mentre il danneggiamento di 3 istituti bancari devastazione?!?!).

Credo sia bensì necessario cercare quanto prima di riflettere, discutere e confrontarci per tutelarci e difenderci da questo tipo di dispositivo giudiziario, oramai ampiamente sdoganato.

 

Di frequente – a partire dall’uso strumentale ed improprio di tale reato per le contestazioni di Genova 2001- le giornate di grande mobilitazione che hanno visto la partecipazione di numerosissimx  compagnx e che sono sfociate in dure e dirette pratiche di opposizione, hanno subìto questo tipo di repressione e la conseguente mannaia della sovra-determinazione giuridica.

 

La peculiare caratteristica del reato e le sue pene così elevate, sembrano particolarmente adatte a colpire situazioni di conflittualità di piazza molto diverse tra loro e spesso si è rivelato quanto mai difficile e complicato costruire percorsi di vicinanza e solidarietà ampi e duraturi nei confronti degli imputati e delle imputate.

I lunghi tempi processuali, le possibili gravità delle condanne, l’etichettamento diffamatorio da parte di organi statali e dell’opinione pubblica, le varie e variegate scelte processuali nell’affrontare processi in cui spesso sono solo e soltanto i giudici a decidere se una particolare situazione corrisponda o no alla fattispecie dell’articolo, seguendo criteri fumosi e alquanto contraddittori, hanno contribuito ad un disgregamento di percorsi solidali e di lotta orientati a contrastare tale dispositivo.

 

Non ho risposte e quantomeno risoluzioni adatte.

 

Qualche anno fa, quando correvano simultaneamente nelle procure di Roma, Milano e Cremona tre accuse di devastazione, si cercò insieme a tanti compagni e tante compagne generosx, fra cui l’infaticabile e inarrestabile Peppino, di mettere insieme e di far partire un percorso legato strettamente al reato di devastazione e saccheggio.

 

Credo sia necessario riprendere questo percorso.

 

Io, insieme a tantx compagnx e solidalx abbiamo una grande voglia di metterci in gioco e capire come e con quali mezzi si possa smontare tale reato, sia da un punto di vista politico sia da un punto di vista giudiziario/processuale, magari anche partendo dalla mia esperienza.

 

Intanto, abbiamo deciso assieme all’Associazione Bianca Guidetti Serra – che da anni si occupa di fornire sostegno legale e di affrontare tematiche come il carcere e la repressione dei movimenti sociali– di creare un fondo comune per sostenere le realtà che si oppongono a questo reato.

 

Vi abbraccio forte e ringrazio chiunque stia spendendo ogni singola energia in vista della prossima tappa giudiziaria.

 

Matteo

 

 

Info: articolo419lecce@libero.it

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“Esclusi dal consorzio sociale”, di Salvatore Ricciardi. Un testo importante, da leggere e diffondere.

16 Ottobre 2019 Commenti chiusi

In Italia il dibattito sulla realtà della repressione, diretta contro l’opposizione politica o semplicemente contro gli esclusi sociali, e sulla sua emanazione più feroce e diretta – il carcere – è drogato e strumentalizzato da mantra ideologici, che ne impediscono una sua più libera espressione. Da ultimo le polemiche infami, agitate sia da destra che da “sinistra”, relative alla recente condanna della Cedu contro l’Italia per l’ergastolo ostativo, ovvero il “fine pena mai” per gli accusati di terrorismo e di reati legati al crimine organizzato. Per questi uomini e donne, per tutti quelli che non si pentono o non collaborano con le autorità, l’ergastolo ostativo si traduce nell’impossibilità di uscire da vivi dal carcere. Una strenua e violenta difesa del “fine pena mai” ha mostrato la faccia becera, forcaiola e giustizialista che caratterizza, con poche eccezioni, l’intero arco costituzionale. “E’ un regalo ai boss!”, “Falcone ucciso due volte”, “A Bruxelles non conoscono la realtà mafiosa”: da Fratelli d’Italia a Sinistra Italiana, da Repubblica a “Il fatto quotidiano”, un florilegio di reazioni e commenti di questa risma.

Ma anche i “bravi cittadini”, come li chiama Salvatore nel suo libro, hanno la tendenza ad appiattirsi su schemi e concezioni filo istituzionali, descrivendo e delineando un contesto in cui una massa informe di “disperati” “reietti” “oppressi”, in una parola, “vittime” richiede aiuto, perdono o urla la propria innocenza. In questo scontro tra concezioni opposte, ma di fatto stereotipiche (mostri da una parte, disperati dall’altra) manca il protagonismo di chi il carcere lo subisce, lo vive, lo trasforma con le proprie lotte. Mancano i detenuti.

Ecco che il libro di Salvatore ci aiuta in questo, dà voce ai “coatti”, ai rinchiusi, ai carcerati e fa sì che le loro vicende prendano vita e vengano conosciute anche fuori. “Il carcere non è trasparente”, afferma l’autore, ciò che realmente accade rimane anch’esso rinchiuso fra quattro mura. Lasciarlo uscire significa anche restituire dignità e parola ad un pezzo importante di storia, quello della lotta antirepressiva ed anticarceraria che affonda le proprie radici nelle lotte degli anni settanta, in cui lo scontro di classe era più evidente e profondo ed arriva fino ai giorni nostri. Le parole e le azioni delle persone imprigionate, che danno vita al sottotitolo del testo, sono quelle di un gruppo di detenuti che si porta dietro l’esperienza del ciclo di mobilitazioni di quarant’anni fa che incontra i “comuni” di oggi. Nel rifiuto del paradigma vittimario ma anche del sostrato fascista, o quantomeno autoritario, che permea la concretezza del carcere, al di là di ogni imbellettamento liberale.

Il testo è scaricabile all’indirizzo del link che postiamo di seguito. Il nostro invito è davvero quello di fruirne il più possibile, ringraziando la generosità di Salvatore che ne ha reso libera la circolazione.

Un libro è qui, potete scaricarlo e leggerlo!

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Con Anna e Silvia e gli altri detenuti in sciopero della fame

10 Giugno 2019 Commenti chiusi

Dal 29 maggio Anna e Silvia, due anarchiche detenute in attesa di giudizio nel carcere dell’Aquila, hanno iniziato uno sciopero della fame, seguite da altri cinque compagni detenuti nelle carceri italiane.

Hanno intrapreso questa forma di protesta per denunciare le condizioni di estremo rigore nella sezione di AS2 (Alta Sorveglianza per prigionieri politici).

Queste condizioni sono diventate nel carcere dell’Aquila di fatto molto simili per durezza e pervasività di controlli a quelle vissute dai detenuti sottoposti al regime di 41 bis, presenti in gran numero in questo carcere di massima sicurezza.

Ci sono mille considerazioni per attaccare il sistema di differenziazione alla base della logica repressiva del 41 bis e delle sezioni di Alta Sorveglianza, in quanto sistema di tortura di Stato e strategia di divisione e annichilimento della popolazione carceraria.

In questo momento tuttavia la nostra urgenza è dettata dal sostegno ad una scelta di lotta coraggiosa e radicale che arriva a mettere in gioco il proprio corpo e la propria stessa vita.

Crediamo che questa scelta non debba lasciare indifferente nessuno e che dovrebbe stare a cuore anche a chi cerca di portare un po’ di umanità dietro le sbarre.

Sui corpi di Anna e Silvia si gioca un esercizio di dominio repressivo che va persino aldilà delle stesse regole di cui l’ordinamento giuridico si è dotato riguardo alle differenziazioni di regimi carcerari. Di fatto al carcere dell’Aquila la sezione di AS2 non è altro che una sorta di 41 bis attenuato che ugualmente impone controlli pervasivi e degradanti ed il più stretto isolamento tra i detenuti e le detenute e tra questi ed il mondo esterno.

Lo stato vuole annichilire il corpo e lo spirito di coloro che sono stati etichettati come nemici pubblici.

Per questo sosteniamo la richiesta dei detenuti in sciopero della fame del trasferimento dall’AS2 dell’Aquila e la chiusura di quella sezione.

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Due anni corrono veloci…

5 Maggio 2019 Commenti chiusi

Due anni corrono davvero veloci, i testi che volevamo finire ingombrano il computer e alcune mail rimangono senza risposta per troppi giorni.

Due anni fa era il 5 maggio 2017, il giorno della pubblicazione del decreto Minniti ennesimo mattone della logica repressiva degli ultimi governi.

Due anni fa era anche il momento in cui  abbiamo pubblicato il nostro libro “Costruire Evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico”.

Costruire evasioni, in un viaggio contro tutte le frontiere….

Per mesi ci siamo scambiati mail con le ultime “messe a punto” con i compagn* della casa editrice Bepress Edizioni di Lecce, con Andrea che ci ha accompagnato fino alle rotative. Da allora il testo è disponibile in libreria (dove spesso se non è fisicamente sugli scaffali, arriva in pochi giorni se l’ordinate) e sui diversi store online.

Anche se per sostenere più direttamente l’editoria indipendente e risparmiare vi consigliamo di andare qui : lo potete trovare al 30% di sconto e senza spese di spedizione!

Nel corso di questi due anni abbiamo cercato per quanto possibile di alimentare un dibattito di movimento contro la repressione. Ci ha fatto un grande piacere incontrare tante realtà da nord al sud, e discutere in situazioni completamente diverse ma accomunate dalla volontà di costruire opposizione sociale alla repressione di stato.

Prosegui la lettura…

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OPERAZIONE RENATA. STORYTELLING PROVINCIALE PER UNA STRATEGIA NAZIONALE (seconda parte)

12 Aprile 2019 Commenti chiusi

I reati inizialmente contestati nell’inchiesta “Renata” includono oltre al 270 bis (associazione eversiva e terroristica) anche il 280 bis (atto di terrorismo con ordigni esplosivi e micidiali). Come abbiamo scritto nella prima parte di questo intervento, queste due imputazioni sono oggi state indebolite dalla decisione del Tribunale del Riesame che ravvisa “solo” l’associazione sovversiva, oltre ad altri reati senza finalità di terrorismo. Ma non crediamo comunque che l’accusa abbandonerà facilmente la qualificazione terroristica delle imputazioni.

Fra gli episodi attribuiti alla fantomatica “associazione”, che farebbero parte del “programma eversivo e terroristico”, vi sono alcuni danneggiamenti, sabotaggi e botti che, nel corso di un paio di anni, hanno colpito obiettivi a vario grado legati a banche, sedi della lega, ripetitori, laboratori di ricerca collegati ad interessi bellici. Ma il dato interessante è che la stragrande maggioranza dei reati contestati, riguarda manifestazioni e presidi tenuti sia in provincia che fuori e comunque attività alla luce del sole con nessun collegamento diretto con le precedenti.

E’ importante notare come l’imputazione del reato associativo permette anche di attivare una sorveglianza invasiva dei sospetti. Si ottiene infatti facilmente in questi casi dal GIP il via libera per l’installazione di telecamere e microspie per captare ogni dettaglio e parola delle vite intime e usarlo, spesso con sapiente montaggio, per costruire l’accusa. Cio’ è avvenuto per l’inchiesta Renata con microspie in auto e finanche una telecamera nel citofono di casa. Ma anche a Torino nell’operazione Scintilla la curiosità degli inquirenti si è spinta fino alle camere da letto dell’Asilo Occupato.

Non è la prima volta che in Trentino si tenta la strada della criminalizzazione delle realtà antagoniste, nella fattispecie anarchiche, addossando loro l’etichetta del terrorismo e dell’associazione eversiva o sovversiva. Cinque volte in trent’anni, almeno tre volte negli ultimi 15 anni, l’articolo 270 bis del codice penale è stato utilizzato contro di loro.

I risultati processuali di questa criminalizzazione sono stati, alla fine, piuttosto miseri: sempre assolti in processo per i reati associativi, gli indagati sono stati sottoposti però a mesi di carcerazioni preventive, spesso in modalità aggravate, in isolamento o in modalità AS2 (chiusura della cella, blindo abbassato per non far vedere quello che c’è fuori, restrizioni alla socialità e ai colloqui, e così via).  Ed è proprio in reparti di AS2 che si ritrovano gli arrestati di queste inchieste, sparpagliati tra il carcere di Tolmezzo a Udine, quello di Ferrara e il femminile dell’Aquila.

Insomma con “Renata” ci riprovano, con gran dispendio di mezzi, uomini, soldi e con il sostegno di campagne mediatiche avviate dall’uomo forte del momento, il ministro dell’interno, che plaude all’operazione di “smantellamento della cellula terroristica trentina” attribuendosene, fra l’altro, i meriti politici. Aldilà della uscite da sciacallo spaccone cui ci ha ormai abituato il personaggio, è evidente che l’avanzamento in chiave reazionaria-sicuritaria, di cui la figura politica di Salvini è perfetta espressione, contribuisce ad accelerare e coordinare operazioni repressive costruite nel corso di diversi anni di indagine.

Il fatto che la regia dell’indagine sia posta ad un livello piuttosto alto è confermato dal coinvolgimento, oltre che dei ROS, anche della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione. Apparati polizieschi che, proprio grazie alla qualificazione terroristica delle accuse, possono realizzare un coordinamento su scala nazionale parallelo a quello, svolto a livello di procure, dalla Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (è il decreto Alfano del 2015 ad aver aggiunto le competenze antiterrorismo alla procura antimafia).

È evidentemente il frutto di una scelta strategica che l’operazione Renata segua di poco quella di Torino contro l’Asilo, un luogo occupato dagli anarchici da 24 anni. Anche qui accuse di reati associativi (associazione sovversiva – articolo 270 codice penale) e di svariati altri reati, legati peraltro alla lotta contro il cpr (ex cie) di corso Brunelleschi. Anche qui dispendio di mezzi e forze dell’ordine nel militarizzare un intero quartiere di Torino (Aurora, dove si trovava l’Asilo), oltre al fermo di quasi venti persone e l’arresto di sette, messe in condizioni di isolamento.

Non è un caso, infine, che queste due inchieste siano intervenute subito dopo il discorso tenuto da Salvini – con il plauso degli alleati – che indicava la rotta da seguire: dopo gli immigrati tocca ai “criminali anarchici e comunisti” dei centri sociali e agli antagonisti in generale, tutti in galera e buttare via le chiavi.

Così come va ricordato che altre due inchieste per “associazione a delinquere al fine di occupazione di case” all’indirizzo dei compagni/e del Giambellino a Milano e di Prendocasa Cosenza sono arrivate subito dopo l’approvazione del “decreto sicurezza”.

In questo periodo, peraltro, sta entrando nel vivo il processo inerente l’inchiesta denominata “Robin Hood”, per quanto riguarda il Giambellino. Il 2 aprile, infatti, è iniziato il giudizio immediato a carico di otto compagni/e inizialmente arrestati lo scorso 23 dicembre e sottoposti da due mesi agli arresti domiciliari, con l’accusa di associazione a delinquere. Ciò che emerge con inquietante ripetitività è la volontà di interpretare le esperienze di lotta, anche più sociale che politica, come possono essere le occupazioni abitative, con la lente della criminalizzazione associativa.

Non è certo la prima volta che accade, diverse inchieste sono state fatte negli anni scorsi con presupposti molto simili, quello che colpisce attualmente è la frequenza e l’estrema somiglianza di caratteri repressivi con cui tali iniziative inquisitorie vengono messe in atto. Le operazioni contro i comitati del Giambellino e di Cosenza sono state eseguite lo stesso giorno contro due realtà politiche coinvolte in alcune occupazioni abitative, sulla base della medesima accusa di associazione a delinquere.

Il decreto sicurezza, voluto fortemente dalla Lega e accettato supinamente dai suoi alleati pentastellati ha sicuramente dato uno slancio forte alle velleità di procure e magistrati adibiti alla criminalizzazione delle lotta politica ed alla repressione di quelle che potremmo definire “forme di vita” che stridono con la configurazione del cittadino modello.

Se analizziamo il provvedimento, vedremo infatti che questo – sul fronte dell’irregolarizzazione degli emigranti, come la chiamerebbe il prof. Pietro Basso – prevede il prolungamento da tre a sei mesi della detenzione degli immigrati “irregolari” nei CPR, il radicale ridimensionamento del sistema SPRAR e la cancellazione del permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, facendo perdere a migliaia di persone il titolo di una, seppur temporanea, regolarizzazione.

Lo stesso decreto, sul fronte della repressione delle lotte ha introdotto il reato di blocco stradale (con le aggravanti, si può arrivare fino a 12 anni) che intende colpire duramente scioperi e picchetti, ha inasprito di molto la disciplina del reato di occupazione di terreni o edifici (la pena è stata raddoppiata, fino a quattro anni di reclusione e la procedibilità è sempre d’ufficio), ha esteso la disciplina del DASPO e dell’utilizzo del Taser.

Questo doppio movimento contro gli stranieri e contro chi lotta è significativo. Teniamo a mente che l’inchiesta di Torino dà molta enfasi alla solidarietà praticata dagli anarchici nei confronti dei reclusi nel CPR, mentre a Milano e Cosenza si colpiscono occupazioni dove trovavano uno spazio abitativo sia italiani che stranieri. Uno degli obiettivi di queste operazioni sembra allora essere quello di stroncare la possibilità che il conflitto politico meno addomesticato e la condizione di grande precarietà vissuta dagli emigranti irregolarizzati si incontrino su un piano di lotte comuni.

In quest’ottica è significativo come sotto il mirino della Lega stia finendo il Si Cobas, uno dei sindacati di base maggiormente impegnato nell’organizzazione dei lavoratori, in gran parte stranieri, del settore della logistica. Proprio in questi giorni un’interrogazione di due consiglieri leghisti del Comune di Modena chiede interventi repressivi contro il sindacato, colpevole di fare il suo mestiere, ossia di “insinuarsi nelle aziende ritenute solide attraverso il rapporto con lavoratori connazionali impiegati nelle cooperative, intercettando, fra i lavoratori culturalmente più deboli, potenziali iscritti” e di “fare proselitismo per poi cogliere un pretesto sindacale e aprire lo stato di agitazione proclamando scioperi”.

L’offensiva giudiziaria contro i movimenti sociali e contro gli antagonisti è sempre stata presente, ma vi è stata un’accelerazione negli ultimi due decenni, soprattutto a partire dal G8 di Genova in poi, con l’uso sempre più spregiudicato dei dispositivi repressivi. L’associazione sovversiva ed eversiva è uno di questi: seguendo la logica del diritto penale del nemico colpisce direttamente le soggettività politiche più che le loro azioni (il 270 bis colpisce le associazioni che solo “si propongono” atti eversivi, mentre il 270 parla di una generica “idoneità” dell’associazione al fine sovversivo).

Adesso, se possibile, vi è stato un ulteriore avanzamento, con un coordinamento spudorato fra i dispositivi politici, mediatici e giuridici, tutti compartecipi a fare la propria parte nella criminalizzazione del dissenso e dell’antagonismo. Bisogna capire l’importanza della posta in gioco: se i reati associativi vengono applicati a dei gruppi privi di un’organizzazione strutturata come gli anarchici o comitati per il diritto all’abitare, domani sarà più facile colpire anche organizzazioni conflittuali come sindacati di base o associazioni e partiti che hanno una certa radicalità.

È necessario interrogarsi su come resistere all’offensiva. Tutti coloro i quali hanno a cuore la libertà e l’agibilità delle lotte dovrebbero stringersi attorno ai colpiti dalla repressione, tentare di rinsaldare i legami tra le soggettività in lotta, difendere con forza le mobilitazioni, le occupazioni abitative o politiche, i collettivi, i centri sociali e rigettare ogni logica di nemicità addossata agli avversari di turno del potere politico.

E’ solo con una rinnovata determinazione di lotta e coesione tra oppressi-e, che è possibile reagire e ripartire.

Solidarietà agli accusati/e del Trentino, di Torino, Milano e Cosenza!

Liberi/e tutti/e!

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OPERAZIONE RENATA. STORYTELLING PROVINCIALE PER UNA STRATEGIA NAZIONALE (prima parte)

25 Marzo 2019 Commenti chiusi

Saranno andati a seguire i corsi della Scuola Holden di Baricco i registi dell’ultima operazione antiterrorismo contro gli anarchici trentini? Quello che è certo è che lo storytelling è molto migliorato rispetto all’analoga inchiesta per 270 bis inscenata in regione nel 2012.

A cominciare dal nome. All’epoca, come sceneggiatori di Boris in crisi di creatività, avevano tirato fuori dal cappello il latinismo: Ixodidae. Non fu esattamente un’idea geniale chiamare in causa il nome scientifico della “zecca”, reminiscenza dell’appellativo che i fascisti usano da sempre contro i compagni. Stavolta hanno scelto il più sobrio “operazione Renata”, dal nomignolo che affettuosamente gli arrestati usavano per indicare l’auto di uno di loro. A suggerire che persino quando maneggiano il ferro rovente del terrorismo, gli inquirenti si sforzano di non perdere la tenerezza.

Ma andiamo con ordine.
Il giorno 19 febbraio, prima dell’alba, 150 uomini fra polizia, carabinieri e squadre speciali (con tanto di passamontagna e giubbotto antiproiettile) coordinati dal Ros (il Raggruppamento Operativo Speciale dei carabinieri che esegue i mandati di cattura degli accusati di mafia o terrorismo) fanno irruzione in una quarantina tra abitazioni private, circoli, palestre popolari, locali e luoghi di lavoro fra Trento, Rovereto e Bolzano. Il risultato: una ventina di indagati (non è ancora stato reso noto il numero esatto), perquisizioni, sequestri (in un caso addirittura di un’intera abitazione, assimilata dagli inquirenti a “covo”, per quasi un mese) e sette arresti.

Le modalità dell’operazione sono brutali, più di quanto non traspaia dai video ufficiali. Persone svegliate alle quattro di notte da agenti armati, abitazioni di parenti, amici o anche solo conoscenti messe sottosopra, irregolarità diffuse e violenze (perquisizioni senza testimoni o effettuate di nascosto, in un caso addirittura l’indagato viene fatto inginocchiare con la testa appoggiata alla parete e con pistola puntata alla tempia). Probabilmente il tutto viene confezionato al fine di scioccare il più possibile la comunità politica di riferimento e criminalizzare preventivamente la stessa agli occhi dell’opinione pubblica (se vengono trattati alla stregua di mostri o mafiosi vuol dire che lo sono davvero).

D’altro canto, una così generosa infornata di arresti e perquisizioni, eseguiti con l’affiancamento alle truppe antiterrorismo delle troupes giornalistiche, sono solo la scena madre di un’operazione mediatico-poliziesca costruita come un banale action movie all’americana. Di quelli che, pur senza trovate particolarmente originali né interpretazioni attoriali davvero convincenti, sanno tuttavia procedere senza grossi cali di tensione narrativa.

Il prologo è di pochi giorni prima, quando viene dato grande risalto alla riunione straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza della città di Rovereto, convocata affinchè il prefetto Lombardi e il nuovo governatore provinciale leghista Fugatti possano ammonire tutti su quello che è il pericolo numero uno in città: gli anarchici. Si scoprirà poi che la conferenza era stata preceduta di un solo giorno dalla firma ai mandati di perquisizione e di arresto dell’operazione Renata.

Ma il vero colpo di scena avviene poche ore prima che scattino gli arresti. In una piccola stazione ferroviaria vicino Trento, dove già si era verificato un attacco incendiario attribuito agli anarchici, il rogo di una centralina elettrica paralizza il traffico per un paio d’ore. Così, mentre gli inviati dei giornali nei “covi della cellula terroristica” preparano il materiale per i titoli del giorno dopo, in redazione si lavora alacremente per annunciare in prima pagina a caratteri cubitali: ATTENTATO ALLA STAZIONE.

Piccolo spoiler: un paio di settimane dopo, in qualche trafiletto in ventesima pagina si è rettificato che l’incendio alla stazione non era di origine dolosa. Eppure, ecco come il quotidiano Adige aveva in prima battuta argomentato l’attribuzione agli anarchici del fatto: un notevole quantitativo di carta è stato fatto bruciare accanto a una serie di centraline elettriche, che sono poi esplose per il calore. La porta del locale di servizio è stata forzata, come hanno verificato gli agenti della polizia locale giunti sul posto insieme ai pompieri”. Insomma,qualche malizioso potrebbe insinuare che, se qualcuno ha appiccato le fiamme, lo ha fatto per attirare l’attenzione sulla pericolosità degli anarchici proprio nel momento in cui si eseguiva l’operazione repressiva.

L’operazione “Renata”, secondo le parole espresse durante la conferenza stampa del Ros che si tiene a Roma il giorno degli arresti, sarebbe volta a sgominare una “associazione eversiva e terroristica” il cui fine è la sovversione dello stato mediante il compimento di numerosi atti di violenza “indiscriminata” e i cui membri sarebbero pronti perfino ad uccidere per portare avanti l’ideale di società anarchica.

Quest’ultimo particolare emergerebbe da un frammento di un’intercettazione ambientale nell’abitazione degli indagati, in cui viene captata una considerazione generale e piuttosto ovvia sulla rivoluzione (“come pensi di fare la rivoluzione senza ammazzare nessuno”), una dichiarazione che non sarebbe nemmeno di paternità degli arrestati. Eppure l’occasione è troppo ghiotta per non essere enfatizzata e strumentalizzata a volontà dagli organi di stampa che si prodigano in titoloni così smaccatamente sensazionalistici (“Erano pronti ad ammazzare”) da somigliare in maniera inquietante a quelli di un racconto distopico che avevamo fatto uscire su questo blog solo qualche mese fa.

Insomma, la costruzione mediatica-poliziesca di tutta l’operazione sembra presa dal manuale “come costruire il folk devil perfetto per una sonnolenta città di provincia”. Non vengono ripetuti gli errori di copione commessi con Ixodidae, in cui la scelta sia dei principali personaggi imputati, trentini e piuttosto conosciuti a livello locale (e non solo), sia della tempistica, letteralmente alla vigilia di una grossa manifestazione No Tav in Trentino, aveva portato il pubblico ad immedesimarsi più nel ruolo dell’antieroe che in quello dello sbirro.

Con Renata invece si agisce in un momento di relativa debolezza della conflittualità sociale. Per il ruolo dei “cattivi” si selezionano giovani compagni attivi nelle lotte (in quelle contro il Tav, ad esempio, ma anche in quelle antirazziste e a fianco dei lavoratori), ma poco noti fuori dal giro militante e quasi tutti “foresti” (ossia forestieri, in dialetto trentino. I giornali hanno più volte sottolineato come solo 2 dei 7 fossero trentini). In un tale contesto, la scelta di non mostrarli mai in foto e una simpatica intervista al parroco che li descrive come ragazzi che sembrano a postissimo, sembra lavorare a rinforzare il topos narrativo dell’“insospettabile terrorista della porta accanto”.

In conclusione, tutta l’operazione lavora (in maniera sufficientemente riuscita purtroppo) sulla performatività comunicativa. C’è una collaborazione evidente tra forze di polizia e giornalisti, non solo nella presentazione delle perquisizioni e degli arresti, ma anche nella scelta di quali aspetti evidenziare e quali mettere in secondo piano. L’accusa di terrorismo viene ripetuta a spron battuto sulle prime pagine e sui TG nazionali, diventando tag per categorizzare la ricerca delle notizie sugli arresti. Al contrario, quando il 19 marzo, si viene a sapere che in sede di riesame l’accusa di terrorismo è caduta, lasciando il posto a quella di associazione sovversiva, alla notizia non viene dato quasi nessun risalto.
Signori e signore, il nemico pubblico è servito!

Sarà veramente passato questo messaggio? In questi giorni i compagni e le compagne stanno moltiplicando gli sforzi nel cercare di spiegare l’entità delle accuse e della posta in gioco. Assemblee, comizi, presidi sotto le carceri dove sono stati portati i compagni e un corteo per le vie cittadine hanno espresso la determinazione nel difendere le persone e le pratiche per cui sono criminalizzate, rispedendo al mittente l’accusa di terrorismo.

Che gli sforzi raggiungano l’obiettivo dipende anche dal contributo di tutte e tutti nel dare concretezza alla solidarietà, anche da prospettive e con modalità diverse da quelle di chi è sotto inchiesta, nella consapevolezza che l’offensiva in corso ci riguarda tutti.

Contributo che sarà tanto più determinante quanto più saprà coinvolgere diverse aree politiche, militanti e non, e saprà guardare all’intera architettura che sostiene l’operazione repressiva, che non riguarda solo i processi o i mandati di cattura. Come vedremo meglio nella seconda parte di questo contributo, i padrini politici che intendono profittare di questo clima di caccia alle streghe o caccia la militante rivoluzionario sono parte del governo giallo verde, ministro dell’Interno in primis ma non solo.

Pezzi importanti del governo hanno patrocinato e parteciperanno ad una tre giorni di incontri a Verona, il 29, 30 e 31 marzo, giorni in cui i peggiori negazionisti, filofascisti e omofobi daranno convegno e propaganderanno le loro dottrine liberticide. Anche questa è repressione, anche di questo le strutture repressive si alimentano.

Sabato 30 marzo ci saranno due manifestazioni. Una si terrà a Torino, contro il clima plumbeo che si respira nella città piemontese (e non solo) e contro l’attacco a spazi sociali e realtà militanti accusate di reati associativi e messi in carcere. Lo stesso giorno, a Verona, si terrà un corteo nazionale volto a negare agibilità politica al Congresso Mondiale delle Famiglie patrocinato dal ministro leghista Fontana.

Sono entrambe iniziative cui è importante partecipare. La lotta contro la criminalizzazione, gli sgomberi, gli arresti dei compagni/e va di pari passo con la lotta contro l’oscurantismo becero e bigotto, la repressione politica è anche repressione di corpi e desideri dei soggetti altri.

A mostrare il legame tra queste due mobilitazioni vi sono anche le parole del presidente della Provincia di Trento, il quale ha rivendicato le cariche poliziesche contro chi contestava una conferenza organizzata sul modello del Congresso di Verona e ha motivato la tolleranza-zero contro ogni forma di dissenso agitando lo spauracchio del nemico pubblico anarchico.

CONTRO IL PATRIARCATO!
CONTRO LA REPRESSIONE!
NIC, POZA, SASHA, STECCO, RUPERT, AGNESE, GIULIO, LIBERI/E!
LIBERI/E TUTTI E TUTTE!

 

[Fine prima parte. Nella prossima pubblicazione guarderemo al contesto politico e giuridico in cui l’operazione Renata si inserisce]

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Prison Break Project a Udine il 2 febbraio

25 Gennaio 2019 Commenti chiusi

Sabato 2 febbraio, alle ore 18:00, Prison Break Project sarà ad Udine, al bar La Girada in via Baldissera, con l’Assemblea Permanente contro il carcere e la repressione.

Avremo con noi copie di Costruire Evasioni e dell’opuscolo “Quando lo stato spara sulla folla”. Presenteremo il libro e parteciperemo alla discussione su repressione dei movimenti e diritto penale del nemico.

Di seguito il volantino dell’iniziativa.

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