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Devastazione e saccheggio: un reato politico da abolire, accusate/i da sostenere

17 Marzo 2021

Quando le istituzioni che hanno costruito la propria legittimità alimentando quotidianamente l’immagine della sacralità dell’ordine pubblico sentono minacciata tale intangibilità, reagiscono con l’arma che più rapidamente può avere degli effetti. La paura. Paura del bastone per alcuni e, per chi applaude il bastone, paura del caos.

Per questo, quando alla vigilia di un ennesimo lockdown, la rabbia ha preso voce, spazio e corpo da nord a sud (Torino, Firenze, Palermo…), la questione più urgente era fermare la contaminazione tra le proteste inerenti le chiusure e quelle contro la mancanza di reddito e la riduzione delle libertà.

PM e giornali si sono attivati da un lato emanando decine di denunce e dall’altro agitando ai quattro venti gli spettri di “infiltrazioni antagoniste” o “irruzioni anarchiche” per demonizzare gli indagati. La procura di Torino ha deciso invece di ricorrere a uno strumento che può essere indicato come una “macchina da guerra” giudiziaria. Il reato di “devastazione e saccheggio” è stato contestato agli autori di alcuni danneggiamenti e furti a diversi negozi del centro della città avvenuti nel corso della manifestazione anti-lockdown. Si tratta di un temibile strumento del potere giudiziario per terrorizzare chi in diverse maniere “crea disordine” e discreditare ogni forma di rivendicazione.

La sua origine risale al codice fascista Rocco e da allora il reato non ha subito significative trasformazioni, arrivando intatto fino ai nostri giorni con il suo portato di pesanti condanne.  Già l’espressione “devastazione e saccheggio” ha il compito di evocare sciagure ed eventi calamitosi, perché no la figura degli sciacalli… insomma un reato nato per fermare i barbari, i nemici della società per i quali non deve essere fatto alcuno sforzo di comprensione delle motivazioni.

L’articolo 419 del codice penale serve, almeno a partire dal 2000 in poi, a sanzionare con decenni di galera gli ultras prima, reclusi e partecipanti alle proteste di piazza poi, soprattutto in seguito al processo del G8 di Genova. Ciò è spiegabile innanzitutto a partire dal significato potenzialmente onnicomprensivo dei due termini, non specificato dalla norma e ricostruito direttamente dai giudici nel corso dei processi. Proprio per il ventennale del 2001 scrivevamo[1]:

Ma che cosa si intende per atti di devastazione e saccheggio? L’articolo 419 non lo chiarisce affatto. Per risalire all’esatta portata di queste due espressioni, giudici e “saggi” del diritto penale sono costretti ad acrobatiche operazioni interpretative che raggiungono risultati anche molto diversi fra loro e a volte quasi paradossali. Innanzitutto si ricava, come comune denominatore, che “il significato minimo” del termine devastazione corrisponde al danneggiamento, mentre quello del saccheggio al semplice furto. Bisogna però considerare che il reato di danneggiamento è già disciplinato dall’art. 635 del codice penale, che, fino al gennaio 2016, prevedeva la reclusione fino ad un anno, ed attualmente è stato addirittura depenalizzato nella sua forma semplice, mentre il reato di furto è punito dall’art. 624 con la reclusione da sei mesi a tre anni. Arrivare fino ai quindici anni di massimo edittale del 419 c.p. è un bel salto!

 

L’evoluzione e la frequenza sempre più vertiginosa del ricorso delle procure a questo reato mostra la sua plasticità e il suo essere profondamente legato all’apprezzamento del singolo giudice o procuratore. Ciò perché la genericità della norma e la mancanza di criteri specifici per l’integrazione dell’illecito lo hanno reso adattabile ai più diversi utilizzi.

Queste caratteristiche emergono anche in sede di indagine come testimonia il caso di Torino quando a 37 persone, soprattutto minorenni e ragazze/i giovanissime/i, viene contestato il 419 cp, con il suo portato di custodia cautelare in carcere e arresto da film all’alba. Se il giorno dell’ “operazione” i riflettori sono tutti per il profilo criminale e la demonizzazione dei ragazzi (con tonalità che passavano dal determinismo lombrosiano al razzismo diffuso), la gravità del reato permette la possibilità di emanare misure cautelari detentive per tutti gli indagati. Per un furto, non si gode della parata d’onore di carabinieri, procuratori e giornalisti. La minaccia “dagli 8 ai 16 anni di reclusione” permette di sbattere in galera, invita al triste gioco dei rimpalli di responsabilità e coinvolge finanche le famiglie nel vortice di una punizione collettiva.

Tali caratteristiche consentono una particolare efficienza performativa: le perquisizioni si abbattono come un ciclone, le misure cautelari cadono a pioggia sugli inquisiti insieme ai comunicati a reti unificate del “comitato delle vittime delle vetrine” (che può costituirsi parte civile e chiedere danni spropositati).

 

Tuttavia a sole 48 ore dagli arresti le crepe sull’operazione “assalto ai negozi – la banda banlieue”, come i giornalisti l’hanno battezzata, iniziano ad apparire, come a confermare l’arbitrarietà della distinzione tra i criteri per stabilire se un fatto corrisponde a furto aggravato o a saccheggio. Per il giudice di Torino che ha riesaminato alcune misure cautelari, questi atti, per quanto “gravemente lesivi”, si qualificano come furto. Derubricando le accuse, ha permesso l’uscita di prigione in attesa del processo di alcuni degli accusati. Il giudice di Ivrea che ha giudicato un inquisito per gli stessi fatti ritiene che questi integrino il 419 cp e dunque conferma la detenzione; invece il Gip del tribunale per i minorenni ritiene che abbiano commesso saccheggio e quindi, per ora, nessuna apertura dei cancelli (ci asteniamo da commenti…).

“Devastazione e saccheggio” dunque è un reato che si plasma a seconda dell’autore, delle situazioni e dell’interpretazione soggettiva del giudice di turno. Non è tanto, quindi, la dinamica dei fatti a interessare, ma il contesto in cui avvengono e soprattutto l’identità e i valori attribuiti a chi viene accusato.

La vicenda di Torino esplicita anche la necessità di seppellire sotto una dicitura criminogena ogni elemento legato alle motivazioni che hanno spinto certe azioni. La violenza, il furto, il danneggiamento sono sempre “irrazionali” e “inaccettabili”, non ci possono essere comprensioni o cedimenti. Si tratta quindi di un reato che ha l’obiettivo di eliminare ogni possibile spazio alle motivazioni politiche degli autori. È inoltre un’arma particolarmente efficace di punizione politica di determinate situazioni: non interessa dimostrare se l’inquisito è davvero autore dei fatti reato, ma è sufficiente che sia stato presente nel luogo in cui sono stati commessi poiché l’istituto del concorso di persone, specie nella tradizione che si è affermata da Genova in poi, permette di condannare chi in vario modo ha partecipato ai moti collettivi. Per la magistratura che usa questo dispositivo l’indicazione è chiara: “si tratta di criminali e bisogna esclusivamente guardare ai loro danni e malefatte”.

 

In questo senso appare urgente riprendere un attacco a tale dispositivo giuridico inscritto nel diritto penale del nemico[2], contrastando sia ogni sua applicazione nei tribunali che la stessa permanenza nel codice penale attualmente in vigore. E questo non solamente perché reato repressivo di stampo fascista, ma anche per la sua intrinseca attitudine a condannare i profili e le situazioni al di là dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali e per la volontà di mascherare ogni portato politico e sociale dietro le etichette più patologizzanti e criminogene.

Come se chi danneggia delle gabbie di un centro di detenzione o di un carcere in mezzo a una pandemia globale non esprima un rifiuto delle proprie indegne condizioni di vita e detenzione.

Come se dietro delle vetrine di lusso spaccate non ci sia la rabbia per l’impossibilità di arrivare a fine del mese.

Per queste ragioni è importante non lasciare sole le persone che vengono investite da questa “macchina da guerra” giuridica. Non solo le e gli imputati, ma anche chi è loro vicino, in termini affettivi, relazionali e politici. Perché un primo passo per inceppare il diritto penale del nemico è evitare l’isolamento e l’abbandono alla demonizzazione mediatica e politica. Se la risposta giudiziaria vuole soffocare le forme di rabbia, magari irruenta e non categorizzabile come “purezza rivoluzionaria”, diventa indispensabile salvaguardare l’espressione del conflitto sociale in questo periodo dove individualismo, indifferenza ed obbedienza rischiano di divenire il pensiero unico.

 

Prison Break Project, 16 marzo 2021

 

[1] Estratto del nostro articolo su Zapruder numero 54 (2021) intitolato Devastazione e sovversione: l’accelerazione repressiva contro i movimenti.

[2] Come abbiamo cercato di argomentare nel nostro libro Costruire Evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, edito per BePress nel 2017.

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