(Aspettando lunedi…) Una sintesi su che significa la finalità di terrorismo contro i notav
Questo testo è una sintesi delle riflessioni rivolte al terrorismo e vuole in particolare affrontare la questione della finalità di terrorismo attraverso la quale hanno arrestato quattro compagni e compagne NoTav incarcerati in regime di alta sorveglianza e vogliono proseguire la criminalizzazione del movimento. È apparso sul sito http://notavbrennero.info per far circolare informazioni e promuovere la mobilitazione di Torino del 10 maggio prossimo in solidarietà agli arrestati.
Prison Break Project pubblicherà inoltre, a partire da lunedì 5 maggio, un articolato intervento sulla storia del reato di terrorismo. La volontà è quella di contribuire al dibattito pubblico e di movimento sul tema della repressione, a partire dalle sollecitazioni che l’attualità giudiziaria impone su chi partecipa alle lotte in Italia.
Il testo sarà diviso in tre spezzoni più brevi per agevolarne la lettura (che saranno pubblicati lunedì 5, 12 e 19 maggio) e per accompagnare simbolicamente le scadenze di questo mese di mobilitazione per la liberazione di compagni e compagne e contro la criminalizzazione della lotta notav.
Che significa l’aggravante di terrorismo addebitata ai No Tav della Val Susa?
Prison Break Project, 3.05.14
Il 22 maggio si terrà la prima udienza del processo contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò in solidarietà ai quali è convocata la manifestazione nazionale del 10 maggio a Torino.
I quattro No TAV sono imputati perché alla fine di una manifestazione avrebbero, insieme ad altri, pesantemente danneggiato alcuni macchinari necessari allo scavo del cunicolo esplorativo nel cantiere di Chiomonte, in Val di Susa.
I fatti contestati riguardano dunque un sabotaggio, ossia una pratica che è da sempre patrimonio dei movimenti di resistenza, come tale rivendicata e difesa dal movimento No TAV, ma che costituisce reato per l’ordinamento penale italiano.
Tuttavia, la gravità del processo in corso è costituita dal tipo di imputazione che i PM Rinaudo e Padalino hanno scelto per qualificare i fatti in questione: attentato con finalità di terrorismo, atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi, detenzione di armi da guerra e danneggiamento.
Come è possibile che un danneggiamento venga equiparato al terrorismo, termine che indica, nel linguaggio comune e secondo i più autorevoli studiosi, la violenza indiscriminata contro la popolazione al fine di diffondere il terrore? Chi può essere terrorizzato dal danneggiamento di una cosa? Come può un sabotaggio essere concettualmente e giuridicamente accostato a un massacro indiscriminato di civili?
Tali domande trovano risposta nella storia, internazionale e italiana, della costruzione statuale della nozione di terrorismo. Se nella concezione originaria e più corretta essa indica principalmente la violenza esercitata dai governi verso le popolazioni (l’esempio più rappresentativo è l’uso del terrore nelle pratiche belliche di bombardamento aereo), nel corso dei due secoli di vita del concetto gli stati hanno provato a ribaltare questo significato.
Al livello dei trattati internazionali questo obiettivo è stato codificato solo recentemente, e in modo parziale. Si pensi che ancora nel 1972 la Risoluzione 3034 dell’Assemblea generale dell’ONU condannava gli atti di terrorismo dei governi coloniali. Essa invece difendeva i movimenti di liberazione nazionale, individuando le cause profonde delle pratiche terroristiche da questi ultimi talvolta adottate “nella miseria, nelle frustrazioni e nella disperazione, che inducono certi individui o gruppi di essi a sacrificare vite umane per tentare di apportare mutamenti radicali”.
Ma lo sforzo definitorio dei governi e delle organizzazioni sovranazionali occidentali stava già da tempo procedendo verso tutt’altra direzione.
Si andava infatti progressivamente sganciando la qualificazione di una condotta terroristica dalla sua oggettiva qualità “stragistica” e “terrorizzante”. Da questo punto di vista, già la Convenzione di Ginevra del 1937 e, più recentemente, la risoluzione del parlamento europeo del 30 gennaio 1997 chiamano terrorismo, in presenza di altre condizioni, anche la violenza indirizzata verso un singolo individuo (specie se si tratta di un uomo di stato). Di più, secondo la raccomandazione del Parlamento Europeo n. 1426 del 1999, può essere terroristica anche la violenza contro le cose.
Secondo questi ed altri atti del diritto internazionale il vero carattere distintivo del terrorismo non riguarda quindi tanto l’oggettività della condotta ma la sua finalità: mirare a rovesciare l’ordine politico e sociale vigente.
Anche nell’ordinamento italiano il terrorismo fa ingresso in questa accezione.
Le “leggi d’emergenza”, in particolare la Legge Cossiga del 1980, costruiscono le fattispecie di delitto terroristico (tra cui anche quelle contestate ai quattro No TAV) intorno alla “finalità terroristica”. Di quest’ultima però non si dà una definizione fino al 2005.
In quest’intervallo temporale saranno dunque i giudici ad avere un ruolo protagonista nel dire cosa sia il terrorismo. Essi saranno incaricati di giudicare in quali persone, fra le molte processate negli anni successivi al lungo ciclo di lotta iniziato nel ’68, alberghi il germe della finalità terroristica, l’idea della rivoluzione. Un’attività simile a quella della Santa Inquisizione, allo stesso modo fondata sulla valutazione delle convinzioni ideologiche degli imputati e sull’utilizzo a fini probatori della dissociazione e del pentitismo, moderne forme dell’abiura.
Dare centralità alle finalità a discapito degli atti costituisce il culmine del processo di soggettivazione del giudizio penale e rappresenta un elemento fondante del “diritto penale del nemico”. In altre parole con un’indagine sulle finalità si valuta non l’offensività del fatto, ma la “nemicità” di chi l’ha commesso. I giuristi parlano a tal proposito anche di “diritto penale d’autore”, nel senso che più del fatto conta l’autore e, in questo caso, il ruolo che il suo livello di politicizzazione ha giocato nella commissione del reato.
Solo nel 2005 giunge in Italia la prima vera definizione giuridica della finalità di terrorismo. In quell’anno viene infatti introdotto nel codice penale l’art. 270 sexies che accoglie la formulazione della decisione quadro dell’Unione Europea 2002/475/GAI.
Secondo l’art. 270 sexies sono terroristiche le condotte che “possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione di un paese” se contemporaneamente:
“sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.”
Secondo questa definizione l’intimidazione della popolazione (centrale nella nozione comune di terrorismo) è uno scopo solo eventuale della finalità terroristica, perché vi è terrorismo anche se si mira a destabilizzare l’ordine politico e sociale esistente. Ma nemmeno quest’ultimo è un elemento necessario, poiché potrebbe essere un sufficiente indice di finalità terroristica la volontà di influire sulle decisioni dello stato o di un’organizzazione internazionale.
Proprio in questo senso va l’accusa mossa ai No TAV imputati per terrorismo. Con il danneggiamento del cantiere, secondo i PM, essi avrebbero causato un “grave danno” ad un’entità alquanto immateriale, ossia “l’immagine dell’Italia”. Inoltre, dato che l’azione si inserisce all’interno della lotta popolare di opposizione al TAV, vi sarebbe anche la finalità terroristica di voler costringere lo stato “ad astenersi dal compiere” una sua decisione, la realizzazione del TAV.
Ciò che sarebbe normalmente considerato un danneggiamento aggravato diviene dunque terrorismo per il suo collegamento con un movimento che si oppone ad una decisione statale. Ma, secondo questa logica, ogni movimento è un terrorista in potenza dal momento che, per definizione, mira ad obbligare dal basso chi detiene il potere a cambiare linea politica.
La definizione dell’art. 270 sexies entra in collisione con diversi classici principi liberali del diritto penale: il principio di legalità si opporrebbe alla vaghezza della norma, poiché implica che le ipotesi di reato vengano determinate in maniera chiara e tassativa; i principi di materialità ed offensività prevedono che non si venga processati per delle idee, ma solo per aver commesso dei fatti che ledono materialmente un bene effettivo; la libertà di dissenso non dovrebbe essere penalmente perseguibile in quanto tale.
Come è possibile tutto ciò in “democrazia”?
La vera e più profonda spiegazione sta nel fatto che esiste da sempre negli ordinamenti giuridici (di qualsiasi orientamento politico) la possibilità di sospendere quei principi e garanzie giuridiche che sono d’ostacolo alla persecuzione dei gruppi di persone che il potere decide di reprimere.
Si tratta del “diritto penale del nemico” ambito del diritto penale dedicato a nemici politici e capri espiatori di ogni genere. Questa categoria è stata teorizzata nel 1985 dal giurista Jakobs, secondo il quale chi non è in grado di promettere fedeltà all’ordinamento viene trattato come non-cittadino e in quanto tale non gode delle “normali” garanzie giuridiche.
Secondo le accuse mosse ai quattro No TAV, oggi sono i movimenti di protesta, in quanto incapaci di promettere cieca fedeltà al sistema politico vigente, a costituire il “nemico” da reprimere con ogni arma, anche con quella dei delitti terroristici.
Anche per questo motivo a Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò deve andare tutta la solidarietà di chi non fa voto d’obbedienza e il 10 maggio anche noi saremo in corteo a Torino a manifestare il nostro sostegno.
Prison Break Project, 3.05.2014
Pubblicato su: No Tav Brennero