Che nella mente (non) rimangano solo muri
“Acciocché l’occhio incontri solo muri”. “Che l’occhio incontri solo muri”. “Che nella mente rimangano solo muri”.
Sono tre passaggi tratti dal bellissimo fumetto di Zerocalcare, “La voragine”, pubblicato per il giornale “L’Essenziale”, in cui viene ripetuto, come un mantra, in cosa consiste l’essenza, la funzione recondita, del regime detentivo del 41 bis.
Tre volte, si diceva. Ogni passaggio scandisce una particolare caratteristica del regime detentivo di cui sopra. Il blindo della cella sempre abbassato, con lo spioncino che dà sul muro del corridoio davanti ad essa, in modo tale che non si riescano mai a vedere le altre celle. L’ora d’aria giornaliera (l’unica) da trascorrere in un minuscolo cortile, fra muri altissimi e con una rete metallica ad impedire di scorgere il cielo. Ed infine le molte prescrizioni da rispettare all’interno della cella, dal divieto di ricevere libri e riviste dall’esterno, alla censura della posta, all’asetticità totale dello spazio, fino al divieto di appendere fotografie alle pareti (se non una, a volte, quando autorizzata). “Che nella mente rimangano solo muri”, appunto.
La fase finale di un processo di annientamento il quale risulta essere la finalità vera della misura restrittiva in questione.
In questi giorni il 41 bis viene tirato in ballo molto più frequentemente del solito. La motivazione è una sola. Il 4 maggio 2022 Alfredo Cospito, anarchico già condannato a 10 anni di reclusione per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo nucleare, condanna interamente scontata, sotto processo per “strage contro la sicurezza dello stato” a causa di un ordigno rudimentale esploso nel 2006 davanti alla scuola dei carabinieri di Fossano, ordigno che gli stessi inquirenti hanno definito “a basso potenziale”, che ha fatto esclusivamente danni materiali non particolarmente rilevanti (la pena prevista dal 285 c.p. è l’ergastolo), viene mandato alla sezione del cosiddetto “carcere duro” del penitenziario di Bancali, a Sassari, per decisione dell’allora ministra della giustizia Marta Cartabia. È il primo anarchico ad essere recluso in un regime carcerario del genere.
Il 20 ottobre scorso Alfredo ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza contro le misure a cui è sottoposto, condotta che perdura ancora adesso e che è deciso a portare fino in fondo. Sono ormai quasi tre mesi, con tutte le conseguenze, tremende, per il suo fisico. La sua determinazione, assieme all’opera indefessa del suo legale Flavio Rossi Albertini, alle azioni di compagni e compagne, anarchiche ma non solo, dell’inizialmente ristretto gruppo di attivisti anticarcerari e al documento diffuso dal pugno di avvocati che denunciavano il clima di caccia alle streghe contro il movimento anarchico, tutto ciò è riuscito a “sollevare il velo di Maya”, a bucare la coltre di indifferenza che da sempre ricopre la condizione carceraria.
Ora il “caso Cospito” è sui giornali, anche nazionali e se ne parla su siti, in radio e in Tv. Un appello sottofirmato da 38 personalità di varia estrazione, che ha raccolto migliaia di adesioni, chiede al ministro della giustizia e al dipartimento penitenziario di tornare sui propri passi e fare di tutto perchè il provvedimento restrittivo venga revocato, nonostante l’ultima parola ora spetti alla Cassazione, visto che il tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto il ricorso contro la misura, e dunque il sistema repressivo abbia confermato la necessità di una punizione la più severa possibile nei suoi confronti. Le molte azioni di compagne e compagni, come occupazioni temporanee di spazi pubblici, presidi, manifestazioni, dirette radio dal carcere di Bancali, hanno rilanciato la questione di Alfredo. Tutto ciò ha avuto il merito di imporre al dibattito pubblico la messa in discussione della misura del 41 bis in sé e l’annientamento che comporta in chi vi è assoggettato.
A nostro avviso è necessario allargare un po’ gli orizzonti per considerare la situazione in cui siamo con le varie sfaccettature. Alfredo e Anna non sono gli unici due anarchici condannati duramente per alcune azioni dalle conseguenze tutto sommato contenute. C’è il caso di Juan, anche lui anarchico, condannato a 28 anni in primo grado, accusato di aver piazzato una “pentola esplosiva” davanti alla sede della lega di Villorba, ordigno che, una volta deflagrato, nelle ore notturne, ha fatto solo danni materiali. Attentato per finalità terroristiche, recita l’accusa, l’articolo 280 c.p, reato che prevede, al primo comma, una pena che può arrivare fino ai 30 anni di reclusione.
Il clima di recrudescenza della repressione penale riguarda ormai molti ambiti dell’azione politica. È solo il caso di citare l’instancabile opera della procura torinese, tra un’associazione sovversiva a carico dei militanti dell’Asilo occupato, l’associazione a delinquere contestata al centro sociale Askatasuna, le centinaia di persone messe sotto processo in Valsusa, le misure cautelari emesse nei confronti di attivisti che protestavano contro l’alternanza scuola – lavoro e contro la morte di un loro coetaneo. Si evidenzia inoltre la richiesta della questura di Pavia di sottoporre il militante di Ultima Generazione Simone Ficicchia a sorveglianza speciale a motivo delle azioni volte a far emergere la questione climatica e ambientale.
Come si è arrivati a questo punto? È utile considerare il ciclo repressivo che ormai da diversi anni coinvolge la penisola in un crescendo inesorabile, fra frenate e risalite. Fra gli altri noi del collettivo Prison break project abbiamo ravvisato, nel nostro tentativo di analisi, l’instaurarsi di una forma di diritto penale del nemico contro gli avversari politici e sociali, almeno a partire da Genova 2001, così da riuscire a leggere in modo unitario l’innalzamento generale dell’entità delle pene inflitte. La sconfitta del movimento no global e la scia di punizione poliziesca e di decenni di galera addossati ai 10 “capri espiatori” del blocco nero (Vincenzo Vecchi è in attesa dell’estradizione dalla Francia) ha avuto come ripercussione la legittimazione all’utilizzo reiterato di strumenti repressivi che molti pensavano relegati agli anni bui del regime e agli anni 70, nonché l’emanazione di nuovi.
L’estrema plasticità e duttilità dei dispositivi punitivi a disposizione ha reso possibile l’adattamento dell’armamentario inizialmente destinato al contrasto di un determinato fenomeno “criminale” ad un contesto completamente differente. È successo con le “misure di prevenzione” come il foglio di via e la sorveglianza speciale, concepite per contenere, anzi per prevenire, soggetti criminali e poi trasferite decisamente nell’ambito della repressione del dissenso politico; è successo con il reato di devastazione e saccheggio, utilizzato senza soluzione di continuità, a partire dagli anni 2000, contro i manifestanti, poi contro gli ultras, poi di nuovo contro i manifestanti ed infine contro i carcerati in rivolta; è successo con i daspo, provvedimenti ideati ad hoc per colpire gli appartenenti alle tifoserie più “riottose” e trasmigrati in contesto sociale e cittadino; con i reati associativi politici, che fino agli anni settanta e ottanta venivano usati contro formazioni politiche ben strutturate organizzativamente e al giorno d’oggi invece sempre più volti a contrastare gruppi anarchici o libertari che si contraddistinguono per la leggerezza o addirittura la mancanza totale di una struttura “classica”, finendo così per reprimere direttamente l’adesione ad un’idea politica; si sta cercando di impiegare lo schema dell’associazione a delinquere “semplice” per punire sempre più centri sociali, sindacati di base, occupanti di case e così via.
La traiettoria politica che ha portato Alfredo Cospito al 41 bis non è così diversa. La particolare agibilità di una misura carceraria così gravosa, guadagnata in trent’anni di applicazione ed espansione costante (si è passati dalle iniziali 200 e rotti alle attuali 750 persone che vi sono ristrette) ne ha legittimato l’estensione ad altre soggettività: dalla repressione della criminalità organizzata alle nuove Br, ai fenomeni “terroristici” (con tutta la problematica relativa alla definizione stessa del “terrorismo”) al primo militante anarchico.
Genova 2001 ha avuto ricadute su una serie di procedimenti che nulla avevano a che fare con il movimento no global e le sue diverse componenti. Anche la portata politica della vicenda di Alfredo va oltre il caso specifico. La concreta minaccia di una condanna definitiva all’ergastolo ostativo e ad alla pena di morte viva del 41 bis nei suoi confronti rappresenta il culmine raggiunto dal ciclo repressivo del dissenso politico attuale. La generosità ed il coraggio di aver messo il proprio corpo e la propria vita a repentaglio in questa lotta ha avuto la conseguenza di evidenziare le contraddizioni e le smagliature del sistema repressivo ma anche di dare ossigeno e spazio al dibattito antirepressivo e anticarcerario.
Vogliamo che Alfredo Cospito viva e venga al più presto trasferito dal regime di tortura del 41 bis.
Vogliamo che venga scongiurata la possibilità di una condanna all’ergastolo per lui e per Anna Beniamino.
Vogliamo che il 41 bis venga abolito perché totalmente incompatibile con la vita umana.
Vogliamo che l’ergastolo ostativo scompaia dall’ordinamento.
Vogliamo che si avvii un processo che porti alla sconfitta della concezione giustizialista imperante, che vede nel carcere la stella polare.
Vogliamo che la repressione smetta di essere l’orizzonte unico di ogni soggetto sociale e politico che si attiva.
Che nella mente crollino i muri che ci rinchiudono.
Prison Break Project