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Ultimi sviluppi della criminalizzazione delle lotte: la “repressione economica”

23 Luglio 2015

Una riflessione sulla “repressione economica” ossia l’utilizzo di sanzioni pecuniarie o risarcimenti civili al fine di combattere i movimenti. Si tratta di un dispositivo repressivo sempre più utilizzato, in particolare contro il movimento No Tav ma non solo, che si inquadra nel tema generale del debito come mezzo di ricatto e assoggettamento.

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Una riflessione a partire dalle ultime vicende repressive contro i No Tav

Prima di occuparci del tema della repressione economica, al centro di questo intervento, ci sembra utile fare il punto delle importanti vicende repressive che il movimento No Tav si è trovato ad attraversare negli ultimi mesi. 

Esse ci sembrano significative da ripercorrere in quanto sono manifestazione del tentativo di estendere il già ampio armamentario penale e amministrativo di cui gli apparati statali dispongono per colpire ogni forma di opposizione sociale. Si inquadrano quindi in quel “diritto penale del nemico” di cui anche la repressione economica fa parte.

Se a dicembre 2014 Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò sono stati prosciolti dall’accusa di terrorismo per un sabotaggio al cantiere di Chiomonte e in maggio nello stesso senso si è pronunciata la Cassazione anche nei confronti di Graziano, Lucio e Francesco1, l’asprezza delle pene comminate nei due processi è un dato che non può essere trascurato.

La solidarietà e la mobilitazione che il movimento No Tav ha saputo catalizzare intorno a questi difficili passaggi repressivi è notevole. Tuttavia quello che emerge dalla vicenda è anche la caparbietà delle Procure (in testa quella di Torino) nel battere la strada del terrorismo fino alle estreme conseguenze, con una metodicità che, anche se non ha portato alle condanne richieste, è riuscita in parte a inculcare nel processo e a livello mediatico l’equazione lotta No Tav = violenza paramilitare, oltre ad avere costretto per un intero anno 7 militanti ad un regime di estremo isolamento in carcere (l’Alta Sorveglianza).

Insomma, a dicembre e a maggio si sono, parzialmente, vinte due battaglie ma non la guerra contro le illimitate possibilità fornite dal codice penale (in particolare grazie alla formulazione contenuta nell’art. 270 sexies) di interpretare “creativamente” la finalità di terrorismo.

E infatti, già a marzo, sono scattate alcune perquisizioni, in relazione proprio all’accusa di associazione con finalità di terrorismo, contro alcuni anarchici indagati sempre dalla Procura di Torino per non precisate azioni contro i cantieri del TAV, nonché per attività di solidarietà con detenuti e per le pubblicazioni di una casa editrice (“Nunatak”).

Appena un mese dopo, in aprile, il decreto Alfano è stato convertito in legge con tutto il suo portato di militarizzazione, vaghezza definitoria e pesantezza sanzionatoria in relazione a nuove e inquietanti ipotesi di reati con finalità terroristica.

Vorremmo qui occuparci di un altro importante aspetto legato alla criminalizzazione dei movimenti, portato alla ribalta dalla sentenza del maxi-processo No Tav, le cui motivazioni sono state pubblicate a fine aprile.

Si tratta di quella che si può a pieno titolo definire “repressione economica” delle lotte, ossia dei sempre più pesanti effetti di espropriazione economica che le campagne di criminalizzazione dispiegano contro i movimenti sociali.

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Il fenomeno della repressione economica

Con l’espressione “repressione economica” non ci si riferisce ad un dispositivo legato ad uno specifico istituto o tipologia di reato, ma ad una possibilità generale e “trasversale” dell’ordinamento di colpire con misure pecuniarie (ossia economiche) chi partecipa alle lotte sociali.

La repressione economica dei movimenti sociali non è che una delle articolazioni in cui si declina l’attacco senza esclusioni di colpi che il sistema repressivo riserva ai movimenti. Essa è dunque a pieno titolo parte integrante del diritto penale del nemico, ovvero di quella peculiare attitudine dell’ordinamento a negare principi garantistici e libertà individuali quando si tratta di colpire un “nemico pubblico”.

La repressione economica sembra prendere sempre più piede negli ultimi anni. Essa assume forme variegate tra cui le più importanti e di cui offriremo esempi di recente applicazione sono la comminazione di sanzioni pecuniarie di tipo penale o amministrativo e le condanne al risarcimento di danni collegati a condotte penalmente rilevanti.

Tutti questi sono in verità istituti ben noti e tutt’altro che straordinari nell’ambito della prassi giudiziaria. Per di più, crediamo che in questa fase il ricorso ad essi aumenti non solo nei confronti dei processi “politici” ma più in generale come traduzione sul piano giudiziario di una globale tendenza, accentuata dalle politiche di austerity, alla monetizzazione di tutti i rapporti sociali.

Tuttavia, se parliamo di repressione economica nei confronti dei militanti politici è perché ci sembra che in questo caso vi sia un più deliberato uso delle misure economiche sopra citate come elemento di una più complessiva strategia di neutralizzazione del “nemico”2.

Insomma, gli apparati statali danno dimostrazione di ritenere che “colpire il portafogli”, specialmente in una fase in cui più pesante è la pressione economica nei confronti dei soggetti sociali più deboli, sia un modo molto efficace di reprimere e prevenire pratiche di autorganizzazione e lotta.

Ciò è dimostrato sul piano quantitativo dalle svariate sanzioni economiche che sono state comminate ai No Tav. Solo a titolo di esempio basti pensare alla solerzia con la quale i presìdi permanenti in Val di Susa, ma non solo, sono stati oggetto di procedimenti per abuso edilizio con esorbitanti richieste di ammenda o risarcimento (così a Chiomonte, Rivoli, San Giuliano di Susa; e sempre nell’ottica della repressione economica ci sembra si possa inquadrare l’espropriazione “occulta” fatta al presidio di Radimero).

Ma anche fuori dal caso No Tav ci sono sempre più esempi di batoste economiche scaricate su chi lotta. L’ultimo è il recentissimo caso di sei ricercatori universitari del collettivo Hobo che si sono visti notificare decreti penali di condanna per un totale di 90 mila euro per aver organizzato dei picchetti davanti all’Università.

La repressione del dissenso mediante sanzioni economiche peraltro non riguarda solo l’Italia. La Ley Mordaza (cosiddetta “legge bavaglio”) recentemente approvata in Spagna testimonia come queste tendenze rispondano ad esigenze comuni alle democrazie occidentali. Questa legge di fatto istituisce una sorta di prezzario per tutta una serie di comportamenti che vengono compiuti nelle manifestazioni: un sit-in può così arrivare a costare anche 30 mila euro e manifestare di fronte a un Tribunale fino a 600 mila euro.

La significatività del fenomeno della repressione economica non va valutata solo dal punto di vista quantitativo bensì soprattutto nella prospettiva del salto qualitativo che si sta intraprendendo. Pensiamo soprattutto ai risarcimenti alle parti civili che vengono accordati in relazione agli illeciti penali.

Come accennavamo questo tipo di misura non è certo una novità, ma recenti sono la metodicità con cui vi si fa ricorso nell’ambito dei processi a carico di attivisti politici, la sistematica accelerazione che i giudici imprimono all’esecuzione forzata di tali risarcimenti accordando sempre più ingenti provvisionali3 e infine la qualificazione sempre più fantasiosa della tipologia di danno risarcibile, che fa ulteriormente lievitare gli importi dei risarcimenti.

Gli esempi più eclatanti sono ancora quelli dei processi No Tav.

Il carattere deliberato di questa modalità repressiva è ben mostrato dai fatti in seguito ai quali il Tribunale di Torino ha condannato tre noti attivisti a risarcire a LTF (la società che deve costruire la Torino-Lione) oltre 200mila euro per aver impedito un carotaggio. Tale cifra esorbitante si deve al fatto che LTF si era premurata di sottoscrivere un contratto di affitto del terreno su cui andava eseguito il carotaggio, impegnandosi a versare un canone dal valore spropositato e giustificabile solo con la volontà di presentare poi il conto ai No Tav, come è effettivamente avvenuto.

Siamo insomma di fronte ad un composito gioco di pressioni in cui i PM e le parti civili, rappresentate da istituzioni pubbliche o da soggetti privati, alzano talmente il tiro delle imputazioni e delle connesse richieste risarcitorie, da indurre non di rado gli organi giudicanti ad accoglierle almeno parzialmente.

Così, se nel processo “compressore” erano state rigettate le richieste dei danni di immagine avanzate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Sindacato Autonomo di Polizia, in maniera diversa è andata con il “maxi-processo” contro 53 No Tav.

In quest’ultimo procedimento il Tribunale di Torino ha giudicato sui fatti avvenuti nelle giornate dello sgombero della Maddalena del 27 giugno 2011 e dell’assedio al cantiere di Chiomonte del 3 luglio dello stesso anno, disconoscendo la valenza politica della conflittualità espressa in quei giorni, dichiarando legittima la violenza messa in campo dalle forze dell’ordine e condannando 47 No Tav a pene che ammontano nel complesso a 140 anni di carcere.

I fatti per i quali gli imputati sono stati condannati attengono principalmente alle lesioni riportate dagli agenti in seguito al lancio di oggetti che, in maniera reciproca, manifestanti e forze dell’ordine si sono scambiati in quelle giornate. In assenza di prove che potessero ricondurre ad una precisa condotta del singolo manifestante la lesione subita dall’agente, la modalità di attribuzione della responsabilità è stata quella del concorso morale, istituto iper-utilizzato nei processi relativi a manifestazioni conflittuali4.

La sentenza riconosce provvisionali che complessivamente ammontano a circa 150 mila euro, una gran parte delle quali sono assegnate ai singoli agenti per le lesioni da loro lamentate. Ma a queste vanno aggiunte anche i risarcimenti riconosciuti ai Ministeri di appartenenza degli agenti, per i giorni di mancato servizio conseguenti alle lesioni.

Infine, e questa è una novità che rappresenta un grave precedente, si riconoscono provvisionali anche ai sindacati di polizia per la lesione al loro prestigio motivata, secondo lo scarno e tortuoso ragionamento del Tribunale, dal fatto che tali sindacati “trovano una delle loro ragioni d’essere nella tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori di polizia e dovettero invece assistere il

27 giugno 2011 ad una delittuosa aggressione a quei valori”.

Questa sentenza segna un ulteriore avanzamento nella direzione della repressione economica, in quanto la costituzione dei sindacati di polizia come parte civile viene in buona sostanza legittimata senza limiti5. Peraltro si offrono in questo modo ulteriori strumenti di autoutela corporativa a forze dell’ordine che già in diversi processi passati (si pensi a quelli post G8 di Genova) hanno dato prova di un notevole “spirito di corpo” a difesa della propria impunità6.

Il cambio di passo in materia di repressione economica si può registrare anche al di fuori dell’ambito No Tav, specialmente nei processi relativi a manifestazioni conflittuali che hanno turbato l’ordine pubblico. Una volta questo tipo di fatti portava al risarcimento dei semplici danni materiali causati dai disordini. Questo è stato in sostanza il caso persino del processo, per altri versi pesantissimo, sul G8 di Genova.

Oggi rischia di normalizzarsi la prassi di richiedere risarcimenti che vanno ben oltre i semplici danni ad arredo urbano o vetrine, ma che includono anche i mancati guadagni per la chiusura temporanea degli esercizi commerciali o presunti danni di immagine.

Ne è dimostrazione il processo per la manifestazione romana del 14 dicembre 2010 arrivato a sentenza di primo grado a fine giugno. In questo procedimento, infatti, l’avvocatura di Roma ha paradossalmente chiesto 586mila euro per danni morali e d’immagine a fronte di una richiesta di 86mila euro per danni materiali. Tale richiesta, al momento non accolta in sede penale, sarà con tutta probabilità ripresentata in un giudizio civile.

Infine, nel campo della repressione economica rientrano anche le spese legali, cui si farà in questa sede solo un accenno. Nei processi “politici” si registra un appesantimento anche sotto questo profilo dovuto prevalentemente alla questione appena trattata dell’ampliamento dei danni risarcibili e dei soggetti legittimati a costituirsi come parti civili. Ciò è dovuto al fatto che laddove l’imputato venga riconosciuto colpevole è tenuto a risarcire anche le spese legali sostenute dalle parti civili per la loro costituzione nel processo penale.

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Gli effetti a livello individuale e collettivo. Il “ricatto del debito”

Vedremo ora quali sono gli effetti della repressione economica svolgendo un confronto con la più classica delle misure repressive, ossia la detenzione in carcere. Faremo ciò non per opporre concettualmente dispositivi che nella realtà operano simultaneamente e in maniera sinergica, ma per mostrare come le misure economiche siano finalizzate a raggiungere con modalità diverse ma altrettanto efficaci i medesimi obiettivi, a dispetto di effetti immediati sulla libertà personale che sono intuitivamente meno invasivi rispetto al carcere.

Innanzitutto, la repressione economica introduce ulteriori margini di manipolabilità nel già ampiamente discrezionale sistema di pene detentive del nostro codice penale. Basti pensare agli episodi di “risarcimento creativo” che si sono citati nel paragrafo precedente, dai fantasiosi danni di immagine richiesti per manifestazioni conflittuali, ai risarcimenti “facili” riconosciuti a poliziotti e sindacati di polizia.

Essi sono dimostrazione di come in questo ambito sia agevole sperimentare nella prassi giudiziaria avanzamenti in direzione di una maggiore repressività che, rispetto ad analoghe accelerazioni nel campo del diritto penale “classico”, hanno anche una minore necessità di coperture normative (ossia di trovare solidi fondamenti in precise previsioni di legge).

Ma, soprattutto, la repressione economica mette ulteriormente in discussione l’ideologia liberal-democratica della responsabilità personale come principio cardine del sistema repressivo.

Questo dogma ha peraltro un certo fondamento fattuale. La detenzione in carcere è in effetti per un militante una punizione che viene affrontata sulla propria pelle come conseguenza possibile dell’intreccio tra le proprie scelte personali e quelle collettive di movimento. Scelte delle quali l’individuo viene chiamato a rispondere con ciò che è sommamente personale: la propria libertà, il proprio corpo.

Tuttavia, uno sguardo più approfondito rivela che, dietro lo schema astratto della responsabilità personale, la carcerazione occulta notevoli costi familiari e sociali. La sottrazione di un individuo al gruppo di appartenenza ha evidentemente pesanti ripercussioni collettive sia dal punto di vista affettivo-relazionale che da quello economico.

Si pensi alla sofferenza derivante dalle limitatissime possibilità di mantenere relazioni tra i detenuti e i loro cari, specialmente quando il luogo di detenzione è molto distante da quello dell’abitazione. Per quanto riguarda poi i costi economici, essi sono gravosi quando la persona incarcerata rappresentava una fonte di reddito per la famiglia, ma sussistono anche in relazione alle spese di mantenimento in carcere e a quelle destinate al “sopravvitto” (ossia ai costosissimi acquisti di prodotti di prima necessità nello spaccio interno del carcere).

Tuttavia con la repressione economica il carattere sociale della punizione viene reso ancor più esplicito perché ad essere colpito è direttamente il contesto collettivo cui appartiene il soggetto.

È infatti evidente che la condanna al pagamento di svariate migliaia di euro andrà a pesare su tutto il bilancio familiare, soprattutto laddove la persona condannata sia uno degli elementi economicamente attivi del gruppo.

A tal proposito è molto interessante un commento apparso sul blog Militant: “la pena pecuniaria molto spesso va a colpire come una vendetta trasversale. Coinvolge genitori, mogli, figli. Costringe, in altri termini, chiunque scenda in piazza ad una riflessione aggiuntiva, a riflettere sulle conseguenze che le proprie azioni potrebbero avere su chi ci sta intorno. Da questo punto di vista è un deterrente simil-mafioso, soprattutto quando l’entità del risarcimento è sproporzionata al danno reale arrecato. E in particolare, quando le motivazioni che stanno dietro alla rabbia di piazza sono proprio di tipo economico”.

Il riferimento al “deterrente simil-mafioso” che si fa in questa riflessione segnala un elemento che ci appare centrale: l’elemento del ricatto. La funzione in senso lato ricattatoria è propria di qualsiasi sanzione, ma qui la peculiarità sta nel fatto che il ricatto si gioca su un piano collettivo, relazionale e affettivo in misura maggiore che nel caso della detenzione, in cui a pagare le conseguenze della sanzione è soprattutto (ma non solo) il detenuto.

Ed è un ricatto che può essere persino più importante del carcere dal punto di vista della durata nel tempo. Infatti, un altro aspetto di differenziazione rispetto alla misura detentiva consiste nel fatto che quest’ultima può essere soggetta a sospensione condizionale della pena o può comunque avere un’esecuzione anche breve, giovandosi di meccanismi di flessibilità e di pene alternative. Inoltre, si sconta la pena detentiva solo quando si viene condannati in via definitiva all’esito dei diversi gradi del processo, salvo che il giudice non ravvisi esigenze particolari che giustifichino l’applicazione della custodia cautelare (questo almeno in linea teorica, nella pratica essa è molto spesso la norma).

Una misura economica invece è immediatamente esecutiva e, laddove si tratti di un importo elevato, può trascinare i suoi effetti per anni ed in caso di insolvibilità può avere impatti pesanti e duraturi sulla vita di una persona: pignoramenti del quinto dello stipendio/pensione, pignoramenti di immobili, autovetture ecc.

La repressione economica opera come minaccia di un debito futuro, indeterminato nell’ammontare e nella durata dei suoi effetti. Al cuore del suo funzionamento è dunque il ricatto del debito. In questo senso si manifesta una trasposizione sul piano giuridico-repressivo di quello stesso meccanismo credito-debito che va imponendosi come forma privilegiata di assoggettamento in questa fase di crescente finanziarizzazione dell’intera vita sociale7.

La risposta repressiva replica dunque nei confronti di movimenti e militanti la tendenza attuale e generale ad usare lo strumento dell’indebitamento per rispondere alle contraddizioni prodotte dalla “crisi economica”. In questa maniera chi subisce una condanna economica si trova ad avere una sorte simile ai sempre più numerosi che si trovano a fronteggiare le azioni esecutive dei loro creditori privati o le cartelle esattoriali di Equitalia.

Tale tendenziale comunanza di destino in un contesto di crescente indebitamento è un dato significativo. Esso va assunto pienamente per capire quali mutamenti possono discenderne dal punto di vista delle relazioni tra chi subisce la repressione e il resto della società. Anche su questo punto è utile fare un parallelo con la reclusione.

Il carcere è certamente un passaggio molto doloroso per chi vi incappa, ma allo stesso tempo appartiene da sempre alla tradizione rivoluzionaria e dei movimenti sociali. È un passaggio che può essere attraversato a testa alta e combattività soprattutto da quei militanti consapevoli che anche nell’angusto spazio delle celle è possibile organizzare delle lotte collettive.

Il carattere apparentemente solitario di questo tipo di pena è dovuto al rapporto di netta separazione tra chi è dentro e chi è fuori al quale la reclusione (già a partire dal significato della parola recludere, rinchiudere) è preordinata. Da questa separatezza e alterità si originano da parte del resto del corpo sociale delle reazioni nei confronti dei detenuti, magari opposte tra loro, ma comunque sempre ben vive: stigma, oppure commiserazione, talvolta solidarietà attiva. Verso le storie dei prigionieri è difficile restare indifferenti, a meno di operare una profonda rimozione, come difatti avviene sistematicamente.

Questo aspetto di compartecipazione emotiva crediamo tenda a perdersi in relazione alla repressione economica. Essa non ti separa dal resto della società, al contrario, come abbiamo detto, ti accomuna ad un destino diffuso. La pena di chi la subisce non tocca i toni drammatici della solitudine “concentrazionaria” dei reclusi.

Il ricatto del debito assume piuttosto i contorni di una sottomissione senza infamia e senza gloria, più subdola, che non necessita di isolamento e controlli diretti e che è dilazionata nel tempo, anche di tutta una vita. Insomma la sorte di chi è colpito dalla repressione economica è banale: arrancare dietro rate da pagare e pignoramenti, come fanno in molti.

Queste considerazioni suggeriscono una possibile trasformazione dell’immagine sociale di chi viene colpito dalla repressione economica rispetto a chi viene colpito dal carcere. Immaginiamo infatti che il “condannato economico” sia meno soggetto allo stigma sociale che colpisce il detenuto (anche se le due figure nella pratica molto spesso si sovrappongono). Anzi nei suoi confronti non può escludersi che possa verificarsi una sorta di più facile identificazione e connessione con quegli strati di popolazione che subiscono maggiormente i meccanismi di indebitamento.

Tutto ciò evidentemente non è automatico ma dipende dalla capacità dei movimenti di trovare e costruire tali connessioni e complicità. Anche perché, in senso contrario a quanto rilevato sopra, un risvolto negativo del carattere burocratico e per così dire “comune” della misura economica potrebbe essere costituito (e forse in parte già lo è) dalla sottovalutazione della sua effettiva durezza a confronto con pene che colpiscono la libertà individuale con modalità più dirette.

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Alcuni suggerimenti di carattere generale sulle reazioni possibili

Dalle valutazioni svolte sopra si può forse trarre qualche conclusione sulle forme di risposta che è possibile ed opportuno dare a questa forma di repressione, sia a livello individuale che dal punto di vista delle reazioni dei movimenti.

Innanzitutto è importante che si formi una consapevolezza sui rischi realistici ai quali la repressione economica espone chi partecipa alle lotte. Da questo punto di vista non c’è bisogno di diffondere il panico, in Italia non esiste una Ley Mordaza che renda generalizzabile la contestazione di gravose sanzioni economiche per fatti di conflitto sociale. Piuttosto, come abbiamo mostrato sopra, gli episodi di repressione economica più importanti si sono al momento registrati in situazioni “sperimentali” o di particolare forza dei movimenti, come ad esempio nell’ambito No Tav.

Tuttavia, è importante per chi si muove nelle lotte sapere che è possibile imbattersi in questo meccanismo repressivo anche al fine di non farsi trovare impreparati.

Nella prospettiva dei singoli bisogna considerare che la repressione economica non ha la medesima capacità ricattatoria per chiunque. Essa dipende anche dalla tipologia di militante che ne viene colpito: è evidente che a livello economico ci sarà sempre chi ha più o meno da perdere e che la medesima misura può essere di scarso rilievo per un soggetto nullatenente mentre può mettere in forte difficoltà una persona dalle cui risorse dipende la sussistenza della famiglia.

Secondo lo scenario delineato sarebbero meno vulnerabili rispetto alla repressione economica quei soggetti e gruppi meno vincolati da un punto di vista di tracciabilità di redditi e patrimoni. Si tratta ad esempio di quei soggetti che non sono intestatari di proprietà e fonti di reddito o, ancora di più, di coloro i quali vivono in maniera extra-legale (lavorano in nero, vivono in abitazioni occupate ecc.).

Naturalmente ciò non significa che chi non risponde a questi requisiti debba essere tagliato fuori dai contesti di lotta potenzialmente esposti al rischio della repressione economica. Piuttosto suggerisce che in tali contesti si tenga in considerazione anche questo rischio, eventualmente ragionando in merito alla possibilità di adottare alcune precauzioni individuali, come ad esempio evitare di intestare a sé stessi beni che possono essere oggetto di pignoramento quando questi invece potrebbero senza complicazioni essere intestati ad altri membri del gruppo familiare8.

Tuttavia va sottolineato che questo tipo di precauzioni non neutralizzano del tutto la capacità di minaccia legata alle forme di repressione economica. Questa infatti si abbatte sui singoli in maniera rapida (senza attendere i tre gradi di giudizio penale) e coinvolge facilmente anche soggetti non particolarmente esposti all’interno delle dinamiche delle iniziative di movimento.

Il rischio di subire condanne pecuniarie può divenire una spada di Damocle che può ridurre le possibilità di allargamento della partecipazione ai movimenti di lotta. I rischi di severi risarcimenti pecuniari possono contribuire ad erigere delle (ulteriori) barriere tra i simpatizzanti e i militanti più convinti ed esperti.

Questi ultimi, intraprendendo delle condotte di prudenza rispetto ai pignoramenti o d’indifferenza nei confronti delle minacce economiche per le proprie scelte di vita prive di risparmio e proprietà di valore, rischiano però di porsi come un gruppo “chiuso” e alimentato da scelte totalizzanti imposte anche dalle multiple articolazioni repressive che si dimostrano così capaci di isolare maggiormente gli attivisti.

In un’ottica collettiva e di movimento la repressione economica costringe a ripensare le modalità della risposta e della solidarietà verso chi ne viene colpito. La solidarietà nei confronti di chi viene imprigionato tradizionalmente si manifesta soprattutto in forme di vicinanza simbolica (corrispondenza e colloqui con i detenuti, manifestazioni solidali all’esterno delle carceri) e politica (messa in campo di forme conflittuali in nome della liberazione dei compagni, rilancio delle stesse pratiche di lotta oggetto di criminalizzazione, generalizzazione e radicalizzazione della lotta dentro e fuori dal carcere ecc.).

Nei confronti della repressione economica le possibilità di risposta dei movimenti dovranno in parte seguire altre strade.

Le soluzioni sono in buona parte da inventare, ma certamente resta fondamentale affrontare con respiro ampio e forza collettiva problemi che non possono essere abbandonati alla semplice capacità di reazione dei singoli o dei gruppi di militanti. Il ricatto del debito infatti non opera come il carcere segregando dal resto della società, ma può ugualmente spingere a un devastante isolamento sociale chi se ne trova ad essere colpito e quindi può alimentare la paura di attraversare alcuni percorsi di lotta.

Primo punto che si pone è decidere se pagare o meno.

Nel primo caso è evidente che la solidarietà contro la repressione si manifesta principalmente sotto forma di solidarietà attiva e mutualismo per il reperimento dei fondi necessari: campagne di raccolta fondi, casse anti-repressione.

In Valsusa abbiamo l’esempio recente di una vittoriosa campagna di raccolta di fondi per il pagamento di un risarcimento da 200mila euro a LTF (è l’episodio del blocco del carotaggio di cui abbiamo parlato sopra). Questo tipo di campagne può quindi funzionare, anche se normalmente esse hanno successo quando rispondono ad un caso specifico con un impatto emotivo tale da mobilitare molte persone in poco tempo.

Più organiche e miranti ad una prospettiva di medio termine sono le casse di solidarietà, che si formano normalmente su base territoriale per affrontare in maniera organizzata i costi della repressione. Come ha sottolineato un autorevole commentatore, nel dar forma a questa soluzione si potrebbe assumere il concetto di repressione nel suo significato più ampio, includendo ad esempio nella tutela della cassa anche i non militanti e le persone che subiscono sanzioni disciplinari sul lavoro.

Tuttavia, sussiste anche l’altra opzione: quella di rifiutarsi di ottemperare alla condanna economica.

Non conformarsi al comando statuale ha una sua forte valenza politica, soprattutto nel momento in cui si è chiamati a risarcire proprio quegli attori privati (ad es. banche, agenzie interinali, imprese costruttrici di grandi opere) o istituzionali (amministrazioni pubbliche, partiti politici, polizia) che con l’azione politica oggetto di criminalizzazione si cerca in tutti i modi di ostacolare.

Questa seconda modalità di risposta evidentemente apre altri scenari, atteggiandosi diversamente a seconda che ad esser colpiti siano soggetti nullatenenti o meno e ponendo la questione di come difendere chi verrebbe colpito dai pignoramenti sia sul piano giuridico-processuale sia sul piano materiale della resistenza collettiva.

Nonostante sollevi innegabili problemi pratici e delicate questioni politiche, il rifiuto di pagare resta comunque, dal nostro punto di vista, la strada più interessante e promettente. Essa infatti si pone come prosecuzione coerente della lotta, sottolinea il carattere di incompatibilità e irrecuperabilità di certe istanze e, soprattutto, può forse contribuire a porre una contraddizione più ampia nei confronti del sistema del debito.

Aldilà della scelta delle concrete pratiche da mettere in campo è chiaro che anche in questo ambito resta fondamentale non farsi ingabbiare nella spirale repressiva. Ciò può forse essere fatto tentando di allargare il fronte della risposta alla singola misura e generalizzando la lotta contro (ma anche oltre) la repressione economica.

Come abbiamo rilevato nel paragrafo precedente, il ricatto del debito accomuna in un destino simile chi subisce una condanna economica e chi si trova schiacciato dai meccanismi di finanziarizzazione e indebitamento.

Per concludere, pensiamo quindi che l’efficacia della lotta alla repressione economica sarà legata alla capacità che i movimenti avranno di far incontrare tale piano con quello più generale dell’insolvenza, intesa come scelta politicamente rivendicata e di classe di sottrarsi al ricatto del debito.

In questa direzione i movimenti hanno ancora molto da costruire, tuttavia crediamo che l’attuale fase capitalistica votata ad una crescente finanziarizzazione della vita sociale renda cruciale un tale sforzo.

Prison Break Project, 23 luglio 2015

1 Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò sono quattro militanti di area anarchica arrestati nel dicembre del 2013 con l’accusa di aver partecipato, alla fine di una manifestazione No Tav, ad un’azione contro il cantiere dell’Alta Velocità di Chiomonte in cui è stato bruciato un compressore. Graziano, Lucio e Francesco sono stati arrestati per gli stessi fatti qualche mese più tardi e sono stati sottoposti ad un processo parallelo. Tutti e sette gli imputati hanno rivendicato davanti ai magistrati la partecipazione ai fatti contestati respingendone tuttavia la qualificazione terroristica sostenuta dall’accusa. Durante i processi, il movimento No Tav ha portato avanti una campagna per la liberazione degli arrestati difendendo pubblicamente la pratica del sabotaggio. Che l’assunzione collettiva di una tale modalità di lotta preoccupi molto le autorità è dimostrato anche dal promovimento di un altro processo, tutt’ora in corso, contro il noto scrittore Erri De Luca, accusato di istigazione a delinquere per aver dichiarato che “sabotare il Tav è giusto”. Per un approfondimento del tema del terrorismo come strumento per reprimere le lotte si veda il testo di Prison Break Project Terrorizzare e reprimere”.

2 In questo quadro si può anche aggiungere la procedura per i ricorsi in caso dei fogli di via, provvedimento amministrativo sempre più in voga contro gli attivisti. Per opporsi a tali limitazioni della libertà si è costretti a rivolgersi al tribunale amministrativo e intraprendere delle spese proibitive e sperare in una (rara) revoca della decisione. Tale fardello economico agisce dunque da ostacolo ad ogni ricorso contro questi provvedimenti preventivi dall’immediata applicabilità e di durata considerevole.

3 Si tratta di condanne al risarcimento del danno che vengono pronunciate dal giudice penale nella stessa sentenza che riconosce la responsabilità penale. Tali provvedimenti tuttavia liquidano il danno solo nei limiti dell’ammontare che il giudice ritiene essere stata provato nel corso del processo penale. La funzione è quella di permettere alle parti civili di richiedere immediatamente il pagamento forzoso del risarcimento così riconosciuto, senza attendere che il giudice civile determini definitivamente la quantificazione del danno in un successivo processo.

4 Il concorso morale è un istituto che si pone in tensione con il principio penale della responsabilità personale, soprattutto nelle interpretazioni che la magistratura ne ha avallato dal 2001 in poi. Esso nega l’esigenza di limitare la punibilità alle sole condotte individualmente attribuite che sono state materialmente causa del fatto. Infatti ci si limita a verificare che il comportamento del singolo abbia rappresentato un apporto (anche di semplice incitamento) a condotte realizzate da altri. Nella sentenza del maxiprocesso così la responsabilità delle lesioni è stata attribuita seguendo uno schema di pura prossimità oraria tra gli “atteggiamenti violenti” del manifestante e il momento in cui l’agente ha riportato la lesione.

5 Il prestigio così come interpretato dal Tribunale di Torino è un concetto talmente vago da poter essere di fatto chiamato in discussione ad ogni episodio di conflittualità sociale e di resistenza alle forze dell’ordine. En passant ricordiamo come tra i sindacati il cui “prestigio” è stato riconosciuto meritevole di tutela vi è anche il SAP, famoso per avere solidarizzato con gli agenti responsabili dell’uccisione di Federico Aldovrandi.

6 Tale sentenza appare dunque pienamente inscritta in una logica di sinergia con le azioni delle forze dell’ordine, omaggiando cosi il ruolo delle loro associazioni di categoria. Sarebbe alquanto curioso vedere una sua applicazione a seguito delle quasi quotidiane aggressioni che le forze di polizia commettono sui lavoratori (sindacalizzati e non) che lottano per i propri diritti. Sarebbero altrettanto zelanti i giudici a riconoscere la minaccia alla salute dei facchini e rimborsare i sindacati di base che da anni si battono per il miglioramento delle condizioni di lavoro ricevendo spesso manganellate in testa?

7 Senza necessità di addentrarsi in pur utili approfondimenti economico-politici, il significato di queste affermazioni è evidente se si guarda a come il ricatto del debito viene usato in questi giorni con l’intenzione di imporre politiche neoliberiste in Grecia o a come il debito pubblico e l’indebitamento privato condizionino enormemente la vita delle persone ormai anche in Italia.

8 Non abbiamo la possibilità in questa sede di offrire suggerimenti precisi e strutturati per prevenire e resistere agli attacchi dei creditori. A tal proposito sarebbe utile che anche in Italia venga pubblicato qualcosa di simile al The Debt Resisters’ Operations Manual , vero manuale operativo per resistere ai creditori stilato dagli attivisti americani di “Strikedebt”.

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