Contro l’offensiva repressiva. Nessuno va lasciato indietro
Il 17 dicembre è stata emessa la sentenza di condanna contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, nell’ormai celebre processo avente ad oggetto un’azione di sabotaggio contro un cantiere Tav in Val Susa. In quanto progetto collettivo che si pone l’obiettivo di analizzare la dinamiche repressive (su questo tema lavoriamo ad un libretto autoprodotto previsto per l’inizio del 2015, mentre proprio al “processo compressore” abbiamo già dedicato un contributo solidale con gli accusati), come Prison Break Project ci sembrava utile formulare alcune riflessioni a partire da questa sentenza.
CONTRO L’OFFENSIVA REPRESSIVA NESSUNO VA LASCIATO INDIETRO
Cominciamo subito col dire che non c’è sentenza di tribunale che potrà mai far esultare fino in fondo chi vuole delegittimare i dispositivi del potere costituito.
Come entusiasmarsi di fronte ad una decisione che condanna a 3 anni e 6 mesi di carcere chi ha rivendicato un sabotaggio in difesa del territorio e della salute, lottando contro uno dei tanti progetti utili solo al mortifero “progresso” capitalista?
Come poter riconoscersi in processi penali che vorrebbero trasformare l’opposizione popolare in terrorismo e che considerano le pratiche della resistenza e del sabotaggio secondo la lente che le qualifica come azioni di tipo militare dalle conseguenze micidiali, mentre si glorificano le operazioni di “polizia internazionale” e si santificano i due marò come nuovi eroi nazionalpopolari?
Non possiamo aspettarci giustizia da un potere che è abituato a esprimersi capovolgendo la realtà, come fece ad esempio il “Grande Inquisitore” Caselli definendo l’azione contro il cantiere di Chiomonte un “atto di guerra”, per far dimenticare che era invece lo stato a schierare in Valsusa l’esercito e i blindati impiegati in Afghanistan.
Tuttavia la sentenza di Torino ha portato anche una buona notizia: il tentativo di estendere i confini del concetto di terrorismo anche ad atti di sabotaggio ha trovato una battuta di arresto. E’ una buona notizia per i movimenti e, in primis, per quei 4 compagni da oltre un anno in carcere preventivo in condizione di Alta Sorveglianza (regime di pesante isolamento carcerario).
La minaccia di decenni di prigione sventolata dal reato di terrorismo e ribadita dai “Pm con l’elmetto” della procura torinese è caduta e coloro che sono dietro le sbarre adesso possono sperare in una prospettiva (speriamo e vogliamo rapida) di limitazione della libertà meno gravosa.
Questa sentenza non deve però minimamente far abbassare la guardia, poiché la volontà di demonizzare il movimento No Tav e, più in generale, chi si oppone alle politiche capitalistiche rimane sempre ben viva. D’altronde il “terrorismo”, come tutti i dispositivi repressivi che si costituiscono in un processo di costruzione del nemico pubblico, ha una funzione performativa che non coincide esclusivamente con la decisione giudiziaria, perché la precede (ad esempio nella possibilità di ottenere facilmente carcerazioni preventive) e la supera (ad esempio costruendo e ricostruendo allarme sociale aldilà delle assoluzioni).
L’accusa di terrorismo, sostenuta anche dopo un divergente pronunciamento della cassazione in maggio e, con sospetto tempismo, reiterata nei confronti di altri tre compagni a una sola settimana dalla sentenza, può essere un segnale della volontà dello stato d’insistere nell’associare il movimento con tale qualifica criminalizzante, confidando nella sua capacità performativa e comunicativa nei confronti dell’opinione pubblica anche quando non si riesce a sancirla nelle aule di tribunale.
Non bisogna poi trascurare il dispositivo linguistico-giudiziario di connotazione militare dell’azione che viene avallato dalla decisione dei giudici di Torino, soprattutto attraverso la condanna per detenzione di armi da guerra. S’ingigantisce in tal modo la qualità offensiva di strumenti di lotta (molotov, petardoni e fuochi pirotecnici) che poco o nulla hanno a che fare con contesti bellici, al fine di massimizzare la pena (come è evidente dalla pesantezza della condanna rispetto ad un atto di semplice danneggiamento). La stessa tecnica, peraltro, era già stata recentemente utilizzata nella condanna dei due No Tav, Paolo e Forgi.
Rispetto a questa torsione linguistica possono essere rivolte anche alla sentenza le parole che Chiara ha pronunciato durante il processo:
“in quest’aula non troverete le parole per raccontare quella notte di maggio. Usate il linguaggio di una società abituata agli eserciti, alle conquiste, alla sopraffazione. Gli attacchi militari e paramilitari, la violenza indiscriminata, le armi da guerra appartengono agli stati e ai loro emulatori”.
La caduta dell’infamante accusa di terrorismo formulata dallo stato che ne è solitamente il principale utilizzatore (dal 12 dicembre ’69 alle operazioni di peacekeeping al pattugliamento dei mari trasformati in giganteschi cimiteri), è in ogni caso un’importante affermazione di tutto il movimento No Tav, il quale sin dall’inizio non si è lasciato intimidire dalla portata dell’accusa e ha sostenuto con una forza e una compattezza esemplare la legittimità del sabotaggio rivendicando, all’unisono con gli stessi accusati, che “quella notte c’eravamo tutti”.
Le pratiche di lotta, anche quelle radicali magari non direttamente messe in atto da tutt*, sono ugualmente patrimonio dei movimenti e vanno sostenute collettivamente senza cedere alle pressioni del paradigma democratico che vorrebbe imporre ogni decisione senza messe in discussioni. Il movimento No Tav ha saputo difendere il sabotaggio come strumento di lotta indispensabile per chi vuole interporsi, non solo allo scempio del territorio, ma alla politica del profitto prima di ogni altra cosa.
Colpire interessi, strumenti, simboli preoccupa la macchina statale, soprattutto se a considerarlo legittimo e giusto siamo in migliaia.
Ci viene consegnata così una lezione importante, di cui si era persa memoria nei miopi tatticismi di area del recente passato (pensiamo ad esempio alla risposta alla repressione post G8 di Genova): si vince solo se “si parte e si torna insieme”, ossia non ci si lascia dividere dalla repressione giudiziaria e mediatica in buoni e cattivi, ma anzi si rigettano le qualificazioni eteronome del potere sulle pratiche di lotta, anche quelle più dirette e illegali, che vengono invece assunte per la loro utilità e condivisibilità.
Il movimento No Tav anche su questo ha saputo fare tesoro della sua pluridecennale esperienza, guardandosi indietro per non dimenticare le proprie ferite e per imparare ad essere più forte, come ha ricordato Alberto Perino ai microfoni di Radio Black-out subito dopo la sentenza del tribunale torinese del 17 dicembre:
“Credo che oggi a fare la differenza sia stato che dietro le barricate, rivendicandole, siamo stati in migliaia. E voglio ricordare una cosa (…). Negli anni ’90 se noi avessimo avuto la maturità di oggi da ambo le parti (…), se qualcuno non si fosse isolato per conto suo e il movimento avesse maturato tutta una serie di cose oggi con noi a lottare avremmo ancora Sole e Baleno. Invece in quel momento loro si sono isolati, noi non siamo stati capaci di comprendere la situazione e li abbiamo lasciati soli e il sistema li ha stritolati. Oggi (i compagni arrestati) non li abbiamo mai lasciati soli, ci siamo sempre schierati al loro fianco, il teorema buoni/cattivi non ha funzionato. Siamo tutti colpevoli, siamo tutti No Tav”.
Questa lucidità di non dimenticare, di fare anche autocritica nel momento in cui si riesce a guadagnare qualche punto nell’estenuante lotta alla repressione mostra la maturità accumulata da un movimento che nonostante componga anime distinte, rivendica collettivamente le pratiche di lotta.
Occorre però ricordare che il confronto con la repressione permane in tutta la sua crudezza. Sul fronte del movimento No Tav, restano ancora da affrontare diverse vicende processuali, i cui snodi più significativi sono il maxi-processo e le accuse di terrorismo ad altri tre compagni. La repressione contro il movimento è articolata e sistematica, segue in particolare la logica della punizione preventiva con la custodia cautelare, banalizzata e prolungata per coloro che vengono processati, oltre alle ingenti sanzioni pecuniarie e alle ormai centinaia di fogli di via dai paesi della valle per altrettanti attivisti.
Ma lo “spettro” del terrorismo, agitato come attributo accusatorio valido per ogni stagione, è minaccioso anche sul fronte complessivo della repressione dei movimenti. Non bisogna dimenticare ad esempio che il sabotaggio viene qualificato come terrorismo pure nel processo contro Gianluca e Adriano e più in generale l’art. 270 sexies continua ad esistere nel codice penale e ad ammonirci che lo stato ha tutta l’intenzione di far passare come terroristici i movimenti reali di lotta. Fuori dall’Italia, in questa stessa direzione va la maxi-operazione di “lotta al terrorismo” rivolta in questi giorni contro gli anarchici spagnoli, nei confronti dei quali sono piovuti arresti e perquisizioni per azioni di sabotaggio.
Tutto ciò non deve stupirci né scandalizzarci: il “diritto penale del nemico” è l’armamentario micidiale di cui ogni potere statale dispone per limitare l’agibilità dei suoi nemici veri o presunti. Che non riesca ad utilizzarlo effettivamente dipenderà dalla capacità collettiva di opporre ad esso adeguati rapporti di forza e l’intelligenza politica di difendere tanto i compagni quanto le pratiche che questi mettono in campo.
La vicende di Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, ma anche quella di Nikos Romanos in Grecia, ci dimostrano proprio che manifestare solidarietà concreta nei confronti di chi viene colpito dalla criminalizzazione spezza l’isolamento e può in parte riuscire a contrastare il disegno repressivo.
Nessuno quindi va lasciato indietro,
né i compagni che stanno già pagando le loro scelte di lotta, né chi si troverà a farlo in futuro.
Nessuno va lasciato indietro, perché siamo tutti colpevoli di resistere.
PRISON BREAK PROJECT
– dicembre 2014 –
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