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L’avv. Calia sui processi in videoconferenza – da radiocane.info

10 Giugno 2014

senza corpo

Quello che segue è il testo di un’intervista rilasciata dall’avv. Caterina Calia a Radiocane, li ringraziamo entrambi per il contributo. Qui trovate l’audio completo

Una ne fanno e dieci ne pensano. L’ultima trovata del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, e del ministero della Giustizia, in materia di annichilimento dei detenuti, riguarda una estensione dell’utilizzo della videoconferenza in sede processuale. Un dispositivo già sperimentato da anni per i reati di mafia e che ora si vorrebbe applicare a uno spettro sempre più ampio di imputati. Sono già diverse le richieste avanzate in questa direzione nei confronti di alcuni compagni (Chiara, Claudio, Adriano e Gianluca), già sottoposti a regimi speciali di detenzione quali l’Alta Sorveglianza (AS2). Un ulteriore ingranaggio nel meccanismo, consustanziale al sistema penale, teso ad annullare l’individuo, un tentativo d’indebolire gli anelli della solidarietà, uno strumento in più per facilitare l’emissione di una condanna, una patente violazione del diritto di difesa.

Su tutto ciò abbiamo chiesto alcune delucidazioni a un avvocato che difende Adriano e Gianluca.

Attardarsi sulle recenti innovazioni in materia di procedura giuridica non significa cercare in essa elementi di legittimità, presunta o fattiva, di una determinata forma dell’agire, foss’anche quella del potere. Ciò equivarrebbe a subire l’incantesimo del diritto, restando paralizzati nel circolo magico della sua autoreferenzialità.

Significa, piuttosto, scovare nelle sue procedure polimorfe l’immagine di un mondo, incombente come uno spettro e, tuttavia, già presente nelle sue dinamiche.

Significa individuare in ogni trattamento differenziato, in ogni regime speciale, in ogni categorizzazione, non solo una partizione del vivente ma anche un operatore universale.

Significa, infine, comprendere come, in ogni figura del bandito, col suo marchio speciale, di speciale differenziazione, traspaia il volto deformato in cui a un tratto chiunque, sgomento, potrebbe riconoscere i propri lineamenti.

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— avv. Caterina Calia —

La videoconferenza nasce come conseguenza dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario ed è strettamente legata ai detenuti sottoposti a questo regime. La norma, che mi pare essere stata introdotta nel 1998, prevede la possibilità che per determinati reati, che sono esattamente quelli per cui è prevista l’applicazione del 41 bis, venga disposta la videoconferenza al posto della presenza in udienza del detenuto.

Le ragioni per cui può essere disposta la videoconferenza sono quelle classiche della sicurezza e dell’ordine pubblico. Inoltre, la videoconferenza puù essere disposta quando un imputato ha parecchi processi, con la conseguente possibilità di rinvii; in teoria, essa nasce quindi per ragioni di economia processuale: se un imputato di un grosso processo di mafia (416 bis) ha contemporaneamente altri due o tre processi, di fatto uno di tali processi rimane bloccato, perché il detenuto è altrove.

Poi, per il 41 bis la videoconferenza è obbligatoria proprio al fine di evitare che ci siano rapporti tra detenuti. Questa è la sua genesi a partire dal 1998. Nel 2001 c’è una modifica e la videoconferenza viene prevista anche per i reati con finalità di terrorismo. Parallelamente, un anno dopo, anche per questi reati è stato disposto il 41 bis; dal 2002 può quindi essere applicato il 41 bis anche a tutti i condannati per reati aggravati dalla finalità di terrorismo.

Adesso, per la prima volta, si prospetta concretamente la possibilità di applicare la videoconferenza a detenuti per i quali essa era già prevista dal 2001, senza però che in questi tredici anni fosse mai stata applicata. L’evasione, avvenuta alcuni mesi orsono, di un detenuto calabrese è stata presa a pretesto per dire: “basta con il turismo penitenziario”, come se uno andasse a fare i processi perché prova piacere ad andarci. Però, guarda caso, la prima applicazione o, almeno, la prima proposta di applicazione per quali reati avviene? Per i reati di natura politica.

Io sto seguendo un processo a Roma nei confronti di due ragazzi anarchici accusati di alcuni piccoli attentati, sempre e comunque inseriti nella cornice del 270 bis, perché un 270 bis non si nega a nessuno. In questo processo, senza che vi siano le ragioni che sono previste dalla stessa norma, l’articolo 146 bis delle norme di attuazione, quindi senza che esistano ragioni di sicurezza e di ordine pubblico, è stato anticipato che sarà applicata la videoconferenza.

L’udienza è stata rinviata a fine maggio proprio per poter usare l’unica aula del tribunale di Roma alla quale è possibile collegarsi in videoconferenza. In tutte le carceri le sezioni dove si trovano detenuti i compagni si stanno installando gli impianti di videoconferenza. Evidentemente, quindi, si vuole evitare che si facciano pubblicamente, come dovrebbero essere fatti tutti, i processi che hanno un impatto politico. Mi pare che la tendenza sia questa.

Ora, nello specifico, per questo processo la giudice ha già anticipato che sarà disposta la videoconferenza, benché ancora non ci sia il decreto. Naturalmente, io mi opporrò. Anzi, pensavo di agire in anticipo, chiedendo che non questo decreto venga emesso in quanto non sussistono ragioni né di sicurezza né di ordine pubblico, e tanto meno ragioni relative al numero elevato di partecipanti al processo.

Un’ulteriore aberrazione di questa norma è che non è previsto ricorso. Quindi, se il giudice stabilisce con decreto che sussistono le ragioni per la videoconferenza e decide di procedere in questo modo, l’unica possibilità di appello è data unitamente alla sentenza, quindi quando ormai il danno sarà stato fatto.

La videoconferenza priva il processo del soggetto principale, il soggetto che viene giudicato e al quale, in teoria, sono dedicati tutta una serie di articoli, di garanzie, il giusto processo eccetera. Con la videoconferenza, l’imputato il processo lo vede a distanza, lo vede attraverso uno schermo su cui compaiono inquadrature parziali dell’aula: quando parla l’avvocato è lui a essere inquadrato, quando parla il giudice lo stesso, senza che ci sia mai una visione d’insieme.

La questione principale è quella di rompere il vincolo di solidarietà fra gli imputati, che non devono

vedersi tra loro, tanto più se si tratta di imputati per reati politici. E questo vincolo si cerca di romperlo utilizzando uno strumento duttile com’è l’art. 146 bis che in teoria può essere applicato a tantissimi reati, per tutti quelli dotati di un minimo di gravità. Alla fine, sono tantissimi i reati che ci rientrerebbero.

La videoconferenza, di fatto, limita le facoltà della difesa. Per esempio, l’avvocato non può parlare tranquillamente a tu per tu con l’imputato, dovendo passare invece attraverso un cavo telefonico, sicuramente sottoposto a intercettazione. Quantomeno questa possibilità non può essere esclusa. Come si fa a essere sicuri che passando attraverso un cavo telefonico di un sistema di videoconferenza non si venga intercettati? E se anche all’imputato venisse un’idea – “beh, forse ci si potrebbe opporre a questa cosa” – certamente non la potrà esprimere con il sistema della videoconferenza.

Il processo è fatto di vari momenti: la possibilità per l’imputato di rendere dichiarazioni ogni volta che ritenga di doverlo fare, la possibilità di intervenire nel momento in cui un teste sta facendo delle dichiarazioni e anche contestarle direttamente. Tutto questo non può avvenire con la videoconferenza, nella quale esistono tutta una serie di filtri. Uno chiede: “posso parlare?”, l’agente che sta all’altro capo chiama il presidente e gli comunica: “l’imputato vuole dire una cosa”, poi il presidente autorizza, e solo a quel punto, una volta autorizzato, l’avvocato può conferire. Il processo perde così d’ogni immediatezza del processo, con tempi che si allungano tantissimo e costi che lievitano.

Tutto ciò è gravissimo, perché va a incidere su dei diritti sanciti da un codice, per quanto esso non sia certo neutro. Anche in questo caso, vediamo come esistano sempre altri articoli che pongono nel nulla le regole che il potere si dà attraverso i propri codici. Non ci sarà il giusto processo, non ci sarà la possibilità per l’avvocato di parlare con il proprio assistito, non ci sarà la possibilità per chi è processato di guardare in faccia i propri giudici, così come per i giudici non ci sarà la possibilità di guardare in faccia la persona che stanno giudicando e di interloquire in qualche modo con essa. Anche in questo caso, vediamo come il potere stia passando sempre più all’esecutivo. Attraverso la videoconferenza il Dap, un organo amministrativo che dipende direttamente dal ministero della Giustizia, toglie di fatto ai giudici stessi la possibilità di verificare direttamente come stanno le cose. Il processo, nella sua complessità, vede la presenza di varie figure. Oltre al pm, al giudice togato, all’avvocato, ci sono, per esempio, i giudici popolari. C’è l’imputato, che ha la possibilità di parlare, di dire la sua, di leggere dei comunicati in aula, e quindi di portare anche la sua verità e le sue ragioni. Anche questa finzione giuridica, che in qualche modo ha retto in tutti questi anni, oggi sta venendo meno. La vicenda della videoconferenza rischia di mettere in luce ulteriormente la non neutralità, la non terzietà del potere giudiziario. Se i giudici accetteranno supinamente le richieste che arrivano dal ministero, si produrrà una situazione davvero grave.

Facciamo un esempio. Immaginiamo un processo che veda la partecipazione di un pubblico numerosissimo e nel corso del quale si pongano problemi di ordine pubblico. A questo punto, il giudice potrebbe decidere, anche per suo conto, di utilizzare lo strumento della videoconferenza. E ciò sarebbe già gravissimo, perché il nostro Paese ha una ben precisa esperienza storica, no? Sono state costruite le aule bunker, si sono celebrati processi con centinaia e centinaia di imputati – pensiamo, per esempio, ai cosiddetti processi Moro, Moro bis, Moro ter, Moro quater – e non ci sono mai stati problemi di alcun genere. In qualche modo, lo Stato ha potuto dimostrare di aver sottoposto a processo i brigatisti, dandogli comunque la possibilità di difendersi, anche se magari loro rifiutavano la difesa, dandogli la possibilità di stare in aula, di starci tutti insieme, di concordare la loro linea difensiva. Oggi, in una situazione che non è assolutamente paragonabile a quella di quegli anni, viene invece proposta la videoconferenza.

Io spero che, davvero, la magistratura possa valutare in autonomia i processi e comprendere gli effetti negativi della videoconferenza, che io credo essere aberrante per tutti, compresi i detenuti in 41 bis. Se questa pratica si diffondesse a macchia d’olio e se si arrivasse a imporla per risparmiare sulle scorte “che aggravano le spese del ministero”, allora sarà evidente a tutti che il processo non ha più la sua parte pubblica. Ma che tipo di processo pubblico si può fare se manca addirittura l’accusato? Neanche l’Inquisizione si sognò mai di fare una cosa del genere. Anche il “mostro”, in qualche modo, era allora necessario nella gestione del processo pubblico.

I detenuti in 41 bis sono già sottoposti a una lesione macroscopica del loro diritto di difesa. Se la videoconferenza passa ora per il reato di rapina, se poi passerà per il reato politico, con essa passerà il principio secondo cui il detenuto non serve più a niente. A quel punto uscirà allo scoperto ciò che è già presente, ma un po’ nascosto nelle pieghe della realtà: il detenuto subisce il processo. Ma, allora – qualcuno dirà –, che bisogno c’è che lo subisca in aula? Lo può subire aspettando il verdetto dentro un carcere. Andremo così incontro a un imbarbarimento di regole che, in qualche modo, durano da secoli.

Basterebbe che i detenuti venissero tenuti là dove si svolge il processo, se davvero si volesse fare economia sulle spese. Invece, se il processo è a Roma il detenuto lo si tiene a Tolmezzo, ad Alessandria o a Catanzaro, così vede meno l’avvocato… Inoltre molti processi potrebbero essere fatti a piede libero, senza custodia cautelare. Invece, ti mando in un carcere lontanissimo dalla tua famiglia, con minori possibilità di incontrare l’avvocato, in circuiti nei quali puoi vedere solo pochissime persone. Tu, magari, aspetti il processo anche per rivedere i tuoi compagni, i tuoi coimputati, e io te lo impedisco. A questo serve la videoconferenza, insieme con tutto questo “pacchetto” di isolamento carcerario.

I circuiti per i detenuti politici sono finalizzati all’annientamento di questi soggetti, che si vedono tra loro e solo tra loro per anni e anni, senza la possibilità di scambiare una parola con altre persone. Nel carcere di Latina esiste una sezione intera con venticinque celle, dove sono rinchiuse cinque compagne, alcune da trent’anni. Non vi si possono mettere altre detenute perché la finalità di questa sezione è proprio quella di mantenere un preciso livello di isolamento.

È chiaro che la videoconferenza risponde a una ben determinata visione della realtà carceraria in tutte le sue componenti. La scure si abbatte più pesantemente sui reati di natura politica, questo è chiaro, ma riguarda in realtà tutti i detenuti. Opporsi alla videoconferenza, oggi, significa quindi opporsi all’intero sistema-carcere e a come esso è pensato nei suoi vari circuiti, tutti finalizzati, in diversa misura, all’annientamento. Il fine dell’annientamento, naturalmente, è più esplicito quando il prigioniero ha una coscienza politica, se non addirittura quando è un prigioniero politico.

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